“Pranzo al Gotham Café” dello scrittore Stephen King, ordinario che sconfina nell’orrore e orrore che sconfina nell’ordinario

Il racconto è un crescendo vertiginoso di tensione e orrore innervato di una vena psicologica sospesa tra l’allucinato e il crudele

È uscita appena l’anno scorso l’edizione illustrata del racconto di Stephen King “Pranzo al Gotham Café”, già pubblicato all’interno della raccolta “Tutto è fatidico”, edita anch’essa da Sperling & Kupfer ma nel lontano 2002.

Il racconto è un crescendo vertiginoso di tensione e orrore innervato di una vena psicologica sospesa tra l’allucinato e il crudele. Tutto si svolge in uno dei tanti eleganti ristoranti di New York, quello del titolo, in cui si incontrano Steve e Diane, sulla via del divorzio, e l’avvocato divorzista di lei. Va detto che il protagonista maschile è in astinenza da nicotina, avendo scelto di porre fine alla propria dipendenza quando ha rinvenuto sul tavolo di cucina, al ritorno a casa dalla sua agenzia di brokeraggio, un anonimo, secco messaggio della moglie che lo informava, appunto, di voler divorziare. Non una motivazione, non un cenno di pur larvato affetto, una gelida dichiarazione che pone un epitaffio su anni di matrimonio con in calce una firma scarabocchiata. Il protagonista si reca all’incontro come attraversando un sogno da desto, a causa dell’astinenza, che si trasformerà presto in una concreta, tangibile arena degli orrori, a causa di un maître di nome Guy, dall’aspetto strano e squinternato, che si rivelerà essere un maniaco omicida in preda alla più belluina follia. Qui non hanno troppa importanza le descrizioni minuziose dell’ambiente, dei commensali, della violenza fisica, quanto della psicologia dei personaggi, che, come spesso accade in King, si palesa solida e convincente. In questo caso però il suo estro narrativo sembra avere la sordina e il racconto, seppure interessante, ha qualcosa di scialbo e sciatto.

La cosa davvero interessante è che tra i due coniugi sulla via del divorzio, la penna di King inscena una contesa feroce che pare il corrispettivo lucido della visionaria follia omicida del maître. Di pari passo Steve deve fare i conti col proprio passato e l’ambientazione del Gotham Café, luogo sinistro e isolato, diviene la metafora della potente tensione emotiva che lo accompagna nel fronteggiare i propri demoni come in un limbo entro cui le regole consolatorie e normali della realtà rimangono esuli. Tra i due ex coniugi non v’è tregua, non v’è una sola zona franca da stizza e rancore, odio e feroce diniego. Sebbene Steve avesse l’aspettativa che quell’incontro potesse avverare un qualche contatto umano con la moglie, questa è gelida e determinata nel non concedergli un’unghia di comprensione e umano rispetto. La lite dei due dopo l’efferata aggressione del cameriere, è palesemente un richiamo a quanto spietata e crudele possa essere anche la contesa all’ultimo colpo di disprezzo, tra due persone normali che vivono una deriva amorosa. Steve salva la vita a Diane, e, ciononostante, questo che potrebbe essere l’abbrivio di un riavvicinamento prende la piega di un rancore ancora più acceso. Come spesso accade in King, i veri orrori sono quelli della mente, i più feroci aguzzini i loro spettri, e quella che potrebbe essere una situazione ordinaria degenera fino al grandguignol – non solo quello fisico ma anche quello psicologico.

Nel finale Steve, scampato al massacro, riflette come la follia di Guy possa essere quasi “comprensibile” e in qualche modo familiare, lo immagina nelle notti insonni (così come lo erano state le sue prima dell’incontro al Café), sdraiato, col pungolo di qualche strana ossessione maturata in silenzio e nascostamente agli occhi del mondo, fino a un punto di frattura, non più elasticamente riassorbibile, che conduce dritti a una follia manifesta. Questa simmetria “sbilenca” tra Guy e una qualsiasi persona comune, appare come la cosa più riuscita del racconto; assieme al comportamento ostinatamente aspro di Diane, quando appare chiaro, a inizio racconto, che Steve non riesce nemmeno a immaginare come la lettera menzionante il divorzio possa essere reale e non un incubo da desto. Tutti dobbiamo fare i conti con il nostro passato, ma talvolta, può essere straniante almeno quanto fatale.

Le illustrazioni sono funzionali e spigolose quel tanto da renderle graffianti e suggestive di una dimensione distorta e allucinata.

Di Massimo Triolo