Antonio Moresco: una prosa "fuori asse" per il sublime e l’osceno, la luce mistica e la carne straziata, l’estasi estatica e l’animalità
La sua opera rappresenta una delle poche, autentiche eredità di destra della letteratura italiana contemporanea: non una destra partitica, né nostalgica, ma ontologica, solitaria, sacrale
Nel panorama ormai desertificato della letteratura italiana contemporanea, dominata da minimalismi borghesi, da un realismo dimesso che pare impastato con la polvere dei salotti editoriali, e da una autofiction narcisistica che si contorce sterile nel recinto dell'io, come Narciso innamorato della propria acqua stagnante, la voce di Antonio Moresco si leva come un monolito anacronistico, tellurico, imponente, estraneo al corso uniforme del tempo letterario, come un obelisco lasciato dagli dèi in mezzo a una pianura in rovina. La sua scrittura non cerca il consenso, non lusinga il lettore con familiarità televisiva o psicologismi da supermercato: essa appare disassata, irregolare, feroce, e per ciò stesso necessaria. La prosa di Moresco è "fuori asse", non soltanto rispetto alla linea editoriale dominante, ma in senso più profondo, quasi cosmico: è il linguaggio di chi scrive non per descrivere, ma per scardinare la superficie del visibile, per far emergere, sotto le piatte cronache del quotidiano, il magma dell’originario, dell’informe, dell’abissale. In essa convivono il sublime e l’osceno, la luce mistica e la carne straziata, l’estasi estatica e l’animalità più opaca: è una scrittura che vibra come un nervo scoperto, che sussulta e pulsa come un corpo offerto al martirio. Talvolta, ricorda Antonin Artaud, nella sua tensione sciamanica, nella sua ossessione per il corpo, il male, la disintegrazione del linguaggio come preludio a una nuova nascita; altre volte, nel suo furore metafisico, nel suo dialogare continuo con la morte e il divino, rimanda a Fëdor Dostoevskij, nella sua capacità di far collidere, dentro un unico personaggio, l’angelo e il demonio, il redentore e il parricida. Eppure, il segno distintivo, che attraversa ogni sua pagina come un’incrinatura sacra, è una visione tragica del reale, una consapevolezza che l’uomo non è un progetto risolvibile, ma un enigma dolente, senza soluzione. Nel suo universo, la parola non è mai neutra: è sangue, febbre, rivelazione. Scrivere, per Moresco, è un atto teurgico, un'esperienza liminale tra la veglia e il sogno, tra la carne e lo spirito, tra la dannazione e una salvezza che non ha più nome. In ciò si oppone frontalmente alla produzione letteraria corrente, che spesso si accontenta di documentare il reale con la diligenza di un notomizzatore sociale, senza mai osare tradurlo in mito. Se c’è un tratto che consente di collocare Antonio Moresco entro una cornice culturale che potremmo definire, senza esitazioni né semplificazioni, “di destra”, è la sua radicale sfiducia nei confronti di qualsivoglia narrazione edulcorata della natura umana. In un’epoca che si ostina a propagandare la mitologia progressista del miglioramento indefinito, del benessere come redenzione laica e dell’educazione come panacea sociale, Moresco si erge come uno dei pochissimi scrittori contemporanei capaci di parlare dell’uomo non secondo l’ottimismo pedagogico di Rousseau, ma secondo l’abisso tragico di Eschilo. Per lui l’uomo non è il “buon selvaggio” corrotto dalla civiltà, quella vecchia favola illuminista che ha nutrito intere generazioni di utopisti, ma un essere radicalmente doppio, ferito, instabile, perennemente sospeso tra animalità e desiderio di assoluto, tra bisogno di tenerezza e pulsione alla distruzione. Il suo cuore è, per riprendere un celebre detto dostoevskiano, “un campo di battaglia fra Dio e il Diavolo”, e non un cantiere di progresso. Moresco scorge nell’uomo non una promessa, ma una frattura originaria, una crepa nella creazione, una colpa che precede ogni responsabilità. L’idea che si possa costruire un mondo migliore semplicemente rimuovendo il Male, negandolo, amministrandolo come un’anomalia statistica. La sua posizione, in questo senso, si inscrive in una tradizione profondamente anti-illuminista, che va da Joseph de Maistre a Donoso Cortés, da Céline a Jünger, e che si fonda sulla constatazione brutale, ma ineludibile che la storia non è la marcia trionfale del Bene, ma una lotta ciclica tra forze arcaiche, cieche, in cui l’uomo è al contempo vittima e carnefice. Moresco non crede nella redenzione collettiva, né nella psicologia come terapia dell’anima; egli parla da un altrove in cui la colpa non è da rimuovere, ma da attraversare.
Questa antropologia tragica, così distante dalle liturgie progressiste e dalle litanie della “cura”, rappresenta una delle forme più alte di resistenza spirituale all’ideologia del mondo nuovo, con il suo culto dell’igiene morale, dell’inclusività come neutralizzazione, della dolcezza obbligatoria. In un mondo che vuole guarire l’uomo da sé stesso, Moresco lo riporta al centro del mistero, in tutta la sua contraddizione insolubile. La sua è, dunque, una destra tragica, esistenziale, verticale, estranea sia al lessico livellante del moderatismo parlamentare sia al cerimoniale istituzionale delle destre liberal-conservatrici, spesso incapaci di distinguere la Tradizione dal tradizionalismo e l’Ordine dall’ordinario. Moresco non appartiene alla destra della contingenza politica, ma a quella corrente carsica e aristocratica del pensiero europeo che concepisce l’uomo non come cittadino o contribuente, ma come essere in lotta contro il tempo, contro l’entropia, contro sé stesso. In tal senso, la sua visione si avvicina, pare, al pensiero di Julius Evola, non certo per affinità tematiche dirette, ma per comunanza di atteggiamento spirituale: entrambi procedono per via verticale, in opposizione frontale al materialismo della modernità, all’orizzontalità democratica, alla meccanica dell’ugualitarismo. In un mondo che concepisce l’esistenza come adattamento, Moresco insiste sulla tensione, sulla frizione tra l’alto e il basso, tra il divino e il larvale, tra il desiderio di purezza e l’attrazione per il fango. È lo stesso “spirito della Tradizione” evocato da Evola ne Gli uomini e le rovine, dove si legge:
«Ciò che conta è la capacità di agire partendo da una visione del mondo verticale e trascendente, non da programmi politici contingenti.»
Quella di Moresco è una forma di ascesi profana, che combatte la dissoluzione non con l’ordine normativo, ma con l’intensificazione del tragico, con il fuoco della parola che brucia e purifica. In questo, egli incarna quell’“aristocrazia interiore” di cui parlava Evola, una nobiltà dello spirito che non dipende dalla nascita, dal ceto o dalla carriera accademica, ma dalla capacità di reggere lo sguardo sull’abisso e di non cedere all’ammiccante conformismo delle moltitudini. Così, mentre la cultura ufficiale celebra la “resilienza” come arte della sopravvivenza, Moresco oppone ad essa la forma alta del martirio, dell’esposizione, dell’intransigenza metafisica. In lui non c’è alcuna conciliazione, ma solo l’urto continuo tra la fame d’infinito e la carne dolente dell’uomo. Una destra, dunque, non sociologica, ma ontologica, radicata non nel calcolo delle riforme, ma nella consapevolezza che la verità costa, brucia, e raramente consola.
Moresco si oppone in modo netto, quasi viscerale, al sentimentalismo democratico e progressista, che ai suoi occhi rappresenta una regressione dello spirito, un infantilismo ideologico ed emotivo travestito da umanitarismo. Lungi dall’essere una forma evoluta di compassione, questa melassa morale, che tutto assolve, tutto comprende, tutto giustifica, è per lui la maschera terminale del nichilismo occidentale, un modo per eludere il conflitto, rimuovere il tragico, abolire la serietà del male. In questa narrazione anestetizzata, dove il Bene coincide con il consenso e il Male è ridotto a deficit di inclusione, Moresco oppone la crudezza di una via tragica, dove il bene non è mai un punto di partenza, né un diritto acquisito, ma una conquista dolorosa, guadagnata attraverso la discesa negli abissi dell’essere. Nei suoi romanzi l’idea di Bene non è mai astratta, né ideologica: non nasce dalla morale, ma dalla metamorfosi, dall’attraversamento del male, dalla combustione dell’io nel crogiolo dell’esperienza estrema. È il Male, non il Bene, che costituisce il vero “elemento”, per citare Ernst Jünger, e con esso occorre ingaggiare una lotta metafisica, non una negoziazione morale. Emblematico in tal senso è L’Addio (Giunti, 2016), opera monumentale e lacerante, che va letta non tanto come romanzo, quanto come epopea apocalittica e rituale iniziatico. L’io narrante, un poliziotto defunto, figura insieme concreta e archetipica, ritorna dall’aldilà, non per risolvere un cold case o per rimediare a un torto personale, ma per combattere una “organizzazione” di stampo sovrumano che insidia e devasta le anime dei vivi. La metafora è potente e senza compromessi: il Male non si corregge, non si rieduca, non si include. Si combatte. Non vi è qui alcuna concessione alle pratiche terapeutiche della modernità, né alla sociologia del disagio: l’avversario è di ordine ontologico, e con esso non si può dialogare, ma solo ingaggiare una lotta escatologica. La scrittura stessa diventa, in quest’opera, atto magico e sacrale, arma contro l’entropia, forma di resistenza all’annientamento. Il poliziotto morto è una figura liminale, uno psychopompos contemporaneo, che attraversa i mondi per riportare un barlume di giustizia là dove tutto è stato devastato. In questo, Moresco richiama, pur nella diversità di mezzi, i grandi archetipi della letteratura visionaria: Dante, Blake, Melville, ma anche i mistici che scesero all’inferno non per descriverlo, ma per strapparvi una scintilla di luce. In una cultura letteraria ormai dominata dal disimpegno ironico, dalla cronaca autoreferenziale e dal culto del privato, Moresco osa riproporre il sacro e il tragico, e dunque il vero. Non c’è nulla di più politico, e di più radicalmente “di destra”, che affermare che il Bene esiste, ma costa, e che l’uomo non è un ente sociale da rieducare, bensì una creatura caduta da salvare o da perdere.
Questa visione anti-irenica, incandescente e non riconciliata, si oppone frontalmente a quella tradizione della sinistra culturale che, da Antonio Gramsci a Pier Paolo Pasolini, passando per il pedagogismo delle avanguardie marxiste novecentesche, ha confidato nella possibilità di un riscatto dell’umano attraverso le strutture sociali, l’educazione, la rivoluzione. Per questi pensatori, pur tra mille divergenze, l’uomo era migliorabile, e la Storia, se non proprio redentrice, poteva comunque essere strumento di emancipazione: l’intellettuale organico gramsciano, il sottoproletariato pasoliniano, l’innocenza pre-borghese, la scuola come ascensore morale. Si tratta, in fondo, di una visione escatologica della società, in cui il Bene si costruisce attraverso il tempo, collettivamente, tramite la dialettica. Moresco, al contrario, spezza questo asse progressivo, lo nega alla radice. In lui non c’è traccia della fiducia prometeica che ha nutrito il pensiero progressista: nessuna redenzione collettiva, nessun tempo storico che porti con sé salvezza, nessuna “palingenesi sociale” come effetto di coscienza di classe o di evoluzione etica delle masse. Al contrario, ogni movimento collettivo appare a Moresco una forma di dissipazione o di inganno, un’ulteriore alienazione dal vero centro del dramma: l’anima individuale, l’essere gettato nel mondo, la creatura isolata davanti al mistero della sofferenza e della morte. La sua è una mistica dell’individuo, dell’uomo solo contro l’universo, in cui ogni possibilità di luce nasce non dalla trasformazione della polis, ma dalla combustione dell’io. In questo, Moresco si avvicina alla grande linea dell’irregolarismo europeo, che va da Nietzsche a Ernst Jünger, da Dostoevskij a Simone Weil, tutti pensatori che hanno inteso la salvezza, se mai possibile, come un’opera dell’interiorità, non della storia.
Nietzsche, nei suoi frammenti postumi, scrive:
“Il gregge è il nemico. La solitudine, la via.”
E Jünger, nel Trattato del ribelle, ammonisce:
“Nella notte del mondo, l’unico gesto ancora dotato di senso è quello dell’individuo che resiste nella propria fortezza interiore, solo come un eremita o un santo.”
Moresco si iscrive in questa costellazione con una voce personalissima, eppure coerente con la lezione dei grandi pensatori della verticalità. I suoi personaggi non cercano la felicità, né il progresso, né il consenso: cercano l’assoluto, e lo cercano attraversando il dolore, senza scorciatoie dialettiche, senza illusioni comunitarie. La loro salvezza non è mai storica, ma metafisica, e come tale, sempre a rischio.
Così, mentre la sinistra culturale ha spesso predicato la pedagogia del riscatto, Moresco mette in scena la teologia della notte: non il sol dell’avvenire, ma le viscere del tempo presente, da cui non si esce se non attraverso una trasfigurazione individuale, violenta, quasi sacrale. Il suo universo
narrativo è percorso da un senso religioso senza religione, da un’invocazione al sacro non istituzionalizzato, che emerge dal fango, non dalla liturgia.
Questa è, forse, la più radicale forma di ribellione che la letteratura possa oggi incarnare: non sperare nulla dal mondo, e tuttavia scrivere come se tutto potesse ancora bruciare di senso.
Chi volesse iscrivere Antonio Moresco nella genealogia della letteratura reazionaria ed eretica, dovrebbe partire non tanto dai grandi maestri della narrazione sociale o psicologica del Novecento, quanto da coloro che hanno fatto della scrittura una lama contro l’ideologia del progresso, una liturgia nera contro il positivismo delle masse e delle macchine. Il primo nome imprescindibile è Louis-Ferdinand Céline, il dannato per eccellenza, il profeta dell’agonia europea. Voyage au bout de la nuit (1932) è, in questo senso, una matrice: un’immersione totale nell’informe e nel disastro, un viaggio non geografico ma ontologico, in cui la notte non è semplice buio ma essenza del mondo moderno, disfatta della luce, trionfo della menzogna sulla verità.
Scrive Céline:
“La vita è questo: un pezzo di luce che finisce nella notte.”
In questa notte, la stessa che percorre i romanzi di Moresco, non c’è consolazione, né politica, né psicologica, né estetica. Non c’è redenzione sociale. Non ci sono alleanze da stringere. C’è solo il corpo, l’anima, la carne dell’uomo abbandonato a sé stesso e alla sua domanda di senso.
Un altro punto nodale di questa costellazione è Georges Bernanos, cattolico estremo, autore del Journal d’un curé de campagne (1936), ma ancor più dell’invettiva assoluta contro il mondo tecnico di La France contre les robots (1947), dove la civiltà moderna viene denunciata come un’impalcatura senz’anima, un meccanismo senz’uomo. Bernanos, spesso ridotto a moralista, è in realtà un teologo dell’abisso, e a lui appartiene una delle più vertiginose definizioni della speranza mai scritte:
“La speranza è una virtù da disperati.”
Anche Moresco scrive sotto questa cifra: la sua speranza non è un diritto, non è un ottimismo della volontà, non è una strategia d’azione, ma un fuoco segreto, oscuro, che arde nella notte come brace sotto la cenere. Nei suoi romanzi non si spera nella politica, né nella società, né nella scienza, che sono viste, tutte, come forme terminali del disincanto, strumenti di addomesticamento dell’umano. I suoi personaggi, come il poliziotto morto de L’Addio, o il ragazzo senza nome della Lucina, non attendono nulla dal mondo, ma si mettono in cammino, comunque, perché la fiamma non si spegne, nemmeno nel gelo dell’universo. Questa è la speranza dei reazionari metafisici, dei santi folli, dei ribelli mistici: una speranza senza garanzia, senza oggetto, ma che persiste, paradossale, scandalosa, proprio perché tutto è perduto. In questo, Moresco si fa erede di una linea che unisce, da sponde diverse, Dostoevskij e Léon Bloy, Simone Weil e Juan Rulfo, e che riconosce nella scrittura non un esercizio estetico, ma un atto di resistenza metafisica, una preghiera lanciata nell’assenza di Dio.
In un tempo che ha sostituito l’escatologia con l’intrattenimento e la teologia con la comunicazione, la letteratura di Moresco appare come uno scandalo e una necessità: uno squarcio verticale in un mondo orizzontale, una voce che non consola, ma inquieta, non ordina, ma incendia. La sua scrittura è tragicamente antistoricista: per lui l’uomo moderno è una creatura amputata, ridotta, “senza più angeli né demoni.” Solo chi attraversa la morte, simbolica e concreta, può tentare una rinascita.
Questa riflessione sulla morte come passaggio iniziatico, che attraversa in filigrana tutta l’opera di Moresco, dai suoi racconti più scarni fino ai cicli narrativi monumentali come Gli increati, si lega intimamente a una concezione sacrale del mondo, che rappresenta una delle cifre profonde della
vera destra, quella destra non ridotta a ideologia partitica, ma intesa come atteggiamento metafisico, come visione verticale dell’esistenza, per usare l’espressione di Julius Evola. È l’idea, antichissima e perenne, secondo cui la vita non è un bene da consumare, ma un mistero da attraversare; l’uomo non è una funzione sociale, ma un essere segnato dall’invisibile, costitutivamente orientato al sovrasensibile. Moresco, è vero, non è credente in senso confessionale: non vi è in lui traccia di dogmatismo ecclesiale, né tanto meno di pietismo. Eppure, il suo universo narrativo è interamente impregnato di una teologia negativa, di un sacro che si manifesta per sottrazione, come una ferita nella trama del reale. Le sue pagine pullulano di silenzi che dicono più delle parole, di epifanie disadorne, di presenze che si affacciano solo per svanire, di assenze che pesano più della materia. È una spiritualità dell’interruzione, una mistica dell’intervallo. Si potrebbe evocare qui Simone Weil, quando scrive:
“Dio si ritira per lasciarci spazio, ma non se ne va: il vuoto è il suo segno.”
In Moresco, l’esperienza della morte non è mai fine, ma soglia, passaggio, prova. I suoi personaggi sono spesso risorti, trapassati, sopravvissuti all’ultima soglia, e abitano un mondo che ha qualcosa di postumo, di oltre il tempo. È un universo che ricorda, per certi versi, quello dei misteri orfici e eleusini, in cui la conoscenza suprema, la gnosi, si rivela solo a chi è sceso agli inferi, a chi ha visto la dissoluzione e tuttavia cammina ancora. In questo senso, la morte non è ridotta alla sua valenza biologica o sentimentale, come in tanto realismo psicologico contemporaneo: è il luogo stesso del sacro, il punto in cui il reale si sfalda e si apre all’oltre-reale.
Non a caso, la narrativa moreschiana è disseminata di immagini liminari, soglie, sogni, apparizioni, e l’aldilà non è collocato altrove, ma già qui, nel cuore dell’esperienza, visibile solo a chi ha perduto tutto e perciò vede. C’è in questo una profonda risonanza con la letteratura apofatica, da san Giovanni della Croce a Maurice Blanchot, che ha fatto del vuoto, della notte, della spoliazione, non l’anticamera del nulla, ma la soglia del divino.
In un mondo desacralizzato, anestetizzato dal consumo e dalla comunicazione continua, Moresco resta uno degli ultimi a indicare che esiste ancora un’“altra dimensione”, che la scrittura può essere rito, liturgia, visione, iniziazione, e che non tutto si esaurisce nell’immanenza. In ciò, egli si pone nella discendenza dei grandi solitari e veggenti della destra spirituale: un Klages, un Evola, un Jünger, ma anche, per inversione tragica, Cioran o Genet, tutti uniti dalla consapevolezza che la vera letteratura non consola, ma costringe a varcare soglie, ad affrontare il sacro come ferita e come fuoco. Scrivere, per Moresco, è fendere il velo dell’apparenza, attraversare la morte, toccare l’invisibile. E in questo gesto sta tutta la grandezza aristocratica del suo fare letterario, che non chiede pubblico, ma adepti; non successo, ma rivelazione.
In tal senso si avvicina più a Simone Weil che a un mistico tradizionale: anche per lui, la verità si conquista per sottrazione, per spoliazione, nella nudità della coscienza.
In tempi in cui la letteratura si piega ai diktat della cronaca, al conformismo dell’inclusività forzata e alla sensibilità algoritmica di un mondo dominato dai feedback, dai like e dagli indici di leggibilità, Antonio Moresco si staglia come uno scrittore verticale, nel senso etimologico e metafisico del termine: uno che guarda in alto mentre tutti gli altri si affannano nel basso. Verticale, cioè, orientato all’oltre, non alla superficie. Reazionario nel senso più alto e nobile: non reazionario come chi vuole restaurare un passato irrecuperabile, ma come chi reagisce al declino con forza visionaria, come chi si oppone al disfacimento non per ripiegarsi nel rimpianto, ma per aprire una ferita nella Storia e gettare luce oltre di essa.
Come scriveva Ernst Jünger, maestro della “destra intellettuale” europea:
“Il vero reazionario non è colui che sogna il ritorno di ciò che è finito, ma colui che custodisce il seme di ciò che è eterno.”
Moresco custodisce questo seme, non nei salotti letterari o nei premi di stagione, ma nella pagina scritta come atto iniziatico, come scavo e come lampo. È un autore che non ha mai cercato “il pubblico”, ma i suoi lettori naturali, come direbbe Simone Weil: quelli che leggono non per svago, ma per sete di assoluto. Non scrive per la platea, ma per chi ha già abbandonato il teatro. Non consola: interroga, brucia, sradica. La sua scrittura si oppone al chiacchiericcio universale non con la provocazione, che è pur sempre una forma di dipendenza, ma con la gravità dell’essenziale, con la densità ieratica di chi ha visto e vuole testimoniare. In un'epoca che celebra la leggerezza come virtù e l’accessibilità come dogma, Moresco rappresenta l’anti-luminoso, il non-mondano, l’inattuale. E in questo è vicino a coloro che Nietzsche definiva “gli uomini futuri”, quelli capaci di vivere nel proprio tempo come stranieri, come ospiti verticali di un’epoca orizzontale. La sua è una letteratura che rifiuta l'immediatezza, il didascalismo ideologico, l’edificante, e che si nutre invece di tempo lungo, di interrogazione metafisica, di deserto. Come scriveva Gustave Thibon:
“Ciò che è profondo non si difende gridando, ma resistendo nel silenzio.”
Per questo Moresco è necessario, anzi oggi più che mai: perché è inattuale, e dunque profetico; isolato, e dunque vero; disuguale, e dunque libero. Non si fa portatore di una “letteratura di servizio”, né pretende di rispecchiare il mondo: vuole trasfiguralo, attraverso lo scandalo dell’assoluto. E se in questa missione resta solo, è perché l’altezza è per pochi, e il vuoto è il prezzo della vetta.
In lui si compie un’ultima difesa dell’uomo come essere tragico e sacro, destinato non alla felicità, ma alla conoscenza, non alla salvezza sociale, ma alla visione interiore, nuda, irriducibile, dell’Essere. Per questo motivo, la sua opera rappresenta una delle poche, autentiche eredità di destra della letteratura italiana contemporanea: non una destra partitica, né nostalgica, ma ontologica, solitaria, sacrale.
Di Giusy Capone