"Piego il silenzio prima di uscire" di Daniela Giorgetti, una poesia lene e sottile, garbata e fragrante come uno schiuso fiore

“Non posso parlare della notte / mi dicono / ma ho conosciuto così bene il giorno / da dirvi / che è solamente l’ombra della luce / che mai dimentico"

Parliamo della poesia lene e sottile, garbata e fragrante come uno schiuso fiore, di Daniela Giorgetti. Perché con “Piego il silenzio prima di uscire”, edito da Raffaelli nel 2024 (pp. 100, euro 16) nella prestigiosa collana Poesia contemporanea, questa poetessa che custodisce silenzi e addimora la propria casa come un intimo guscio fiorito di spighe di luce, avvicina la tela delicata dei giorni ai colori e all’impalpabile, inattingibile voce del cielo. Assistiamo a una partitura elegante ed essenziale, diapason di nitore e precisione del gesto di offrire le parole alle correnti di una vita. Tornano i cieli, i mari, l’aria diafana e la neve col suo canto fragile che più non pesa ma si discioglie ad annunciare e nutrimento alla terra e reviviscenza di una stagione più mite, colma di consigli e annunci, riflessa nel gesto sapiente di guardare al mondo un momento prima del suo accadere in natura, come dentro lo specchio di una eco di presagio fondissimo, e un momento dopo la sua ultima impronta che disegna cicli atavici e senza nome. La notte invece è foriera di tacite parole, segni manifesti solo sulla filigrana sottile del sogno e dell’illusione (più vera di ciò che è detto vero dai meschini) di poter cucire a sé l’inascoltato, al proprio canto il tocco, lieve come un petalo, di una volontà di ricucire e sanare, ancora senza far rumore; ancora senza strepito e annunci di prodigi, ma nella ferma semplicità di far convergere vita e paesaggio onirico, la natura naturata che parla con sapienza e quella di creature che vi si immergono senza respiro, per trovare poi respiro nella luce, nell’evidenza di ciò che non concede che sé: incoercibile essere sul limine di abbandono e preghiera, sazietà e vuoto, eleganza e dimessa natura. Questa giovane e impareggiabile poetessa dovrebbe essere letta e riletta, perché se pure il suo mondo è così ricco e celestiale, il suo canto poetico non eccede di una virgola, pennella con gesto sicuro e tonale la tela di giorni comuni ma non futili, parole d’amore che sanano ferite altrimenti inciprignite e abbandonate al proprio bruciore senza più un alfabeto. Daniela Giorgetti cura, carezza, ripiega il silenzio e colleziona fiori che portano infiniti nomi, destati dal vento a sussulti di carezze lontane e fatate. Scrive pagine delle onde del mare, e disegna onde sulle pagine dei giorni, di un tempo che più non nuoce, conciliato con la vita e le multiformi manifestazioni di essa. La poetessa, come detto, ha sete di domestico tepore, compone fiori o lascia che siano composti da un gesto d’amore che li coglie allo spreco di non essere sé (ovvero non contemplati, non testimoniati) nel deserto di giorni così alieni al suo canto e così impellenti da urgere in un contro-mondo rispetto al suo. La sua voce danza, intreccia ghirlande di bellezza abbacinante e custodisce un amore grande come il perdono, profondo come una vita non rassegnata alle brutture che dispensa non la natura catafratta e sola ma elargitrice, ma una società lontana come un miraggio infernale, un miraggio che pure tanto sacrifica della concretezza che hanno certi sogni sognati e certi sogni vissuti. Ella invita più volte al silenzio, bacino di creazione e isola di tregua, giardino in cui l’erba si rialza dopo i passi, quasi che essi appartenessero solo a un paesaggio onirico (o a un passaggio così lieve da ricadere nel “silenzio” della traccia di sé) di cui non rimane orma se non in chi lo raccoglie per testimoniarlo fuori dall’ossessione di falsi miti e vuote, meccaniche, insistite movenze di anime che adottano posture non tanto sole quanto chiuse in una solitudine senza rimedi, non tanto salve nel silenzio, quanto sequestrate a sé proprio nell’attimo di offrirsi alla vita. Non parte, la poetessa, perché ha in sé tutti i luoghi e in essi va “a fondo”. Ma nel suo stare non v’è l’olezzo della stagnazione, v’è il tepore di una domestica familiarità, di un accordo con lo spartito dell’universo, con le sue sinfonie e la sua bellezza inviolata che rifulge in tutte le cose, quando colte con sorpresa bambina e assieme esperienza del dolore. Non un dolore che segna come aratro la pelle dell’anima, ma un dolore che brucia come un rosso fiore sullo stelo di un abbandono fragile che nomina sé stesso solo in punta di silenzio e sa sanare torti e maltolti, vicende che altrimenti cadono nel fondale di un indiscernibile che la poesia non salverebbe dalla mancanza di sé.

Altro non so dire di questa poetica giusta ma senza giustificazioni, elargiva come le cose buone e semplici, se non che è come un celestiale magnete che attrae a sé, come una voce che insiste la riva del tempo e pari a un’onda ne trae il sale e la sapienza che altro non attende che di essere accolta e testimoniata.

Di Massimo Triolo