Il concertone sindacale è l'ennesima sfilata dei paraculi, figli di un cognome o di un potere, che sfilano "per i diritti" ma solo quelli propri

Il Paese degli oligarchi è questo: poteri industriali, artistici o politici che si tramandano per la via del familismo amorale che sguazza nell'opportunismo retorico, ideologico. Ma il mondo è avanti anni luce.

Ha ragione Federico Rampini, gli oligarchi stanno in Italia e sono quelli che si tramandano il potere per via dinastica. Non è mai parso tanto vero come vedendo il ragazzetto Leo Gassman, nipote di un cognome, zampettare sul palco di Landini della CGIL berciando “Bella Ciao”. Questo Leo è il classico esempio di uno che non deve avere talento ma successo e lo infilano dappertutto e lui poco più che ventenne lo considera dovuto, non ha problemi nel votarsi alla segretaria Lella, gira da un Sanremo a un set, da un palco sindacale a qualsiasi altra opportunità, il suo unico problema è come divertirsi nella vita, cosa scegliere di fare di volta in volta ma sbraita Bella Ciao in favore dei diritti, dei diserederati. Come quell'altra faccia bronzea della Elodie il cui impegno nessuno ha capito, una che denuncia il sessismo che alimenta: anche lei al Primo Maggio “per i diritti” ma vedi caso le esce lo stesso giorno un disco che lei lancia mettendosi in croce: la sua, la nostra che siamo costretti a sopportarla dappertutto? Questa Elodie di relativo talento ha appena fatto un calendario “contro il patriarcato”, è reduce da un Sanremo non esaltante, ma ha raddoppiato il fatturato della azienda che gestisce i suoi interessi; se entra al ristorante lo pretende per sé, si atteggia a divetta del Quartaccio e va a cantare per i disoccupati, gli sfruttati? Il meglio è il suo amico Achille Lauro che porta al cospetto della CGIL le sue lagne copiate dai Procol Harum, sempre in sostegno degli sfruttati dalla globalizzazione ma fa la pubblicità ai marchi della globalizzazione. Non fa un po' schifo questa gente nella sua faccia bronzea dinastica? Il Lauro, che ha scelto il nome d'arte di un populista monarchico in odor di fascismo, è figlio e nipote di togati dai quali può all'occorrenza farsi cavare dai guai, giusta la regola classista “la legge è uguale per tutti ma per qualcuno più uguale” con ciò intendendosi non solo la regola tribunalesca ma soprattutto quella moralistica. Ma chi li sta ad ascoltare è meglio? A questo concertone faranoico dalle spese e dagli introiti mai specificati in tre nordafricani hanno messo le mani addosso a una arrivata dalla Campania mentre il masaniello islamico Ghali mandava le sue nenie sull'accoglienza, li hanno portati in questura ma subito un giudice li ha liberati, così possono riprovarci, magari con migliore esito. Roba che supera l'assurdo ma da sinistra non hanno detto una parola e da destra si sono ben guardati, salvo poche testate che anche alla destra compromissoria e possibilista stanno sullo stomaco perché le rovinano l'attitudine a durare a qualsiasi costo.
Il Paese oligarchico non ama le verità evidenti perché coincidono con gli squilibri reali, coi privilegi evidenti e tutti più che indignarsi invidiano, pensano bravo il piccolo Gassman che a 20 anni ha già assimilato l'unica arte possibile, quella del durare, quella della paraculaggine che risplende nella nostra politica servile. Quando, senza ancora sapere di avere un cancro, giravo a denunciare lo scandalo dell'obbligatorietà curativa, dei coprifuoco e della repressione sanitaria, mi imbattevo in due tribù uguali e contrarie, quella dei provax fanatici proiettati in politica e l'altra dei novax radicali che mi confidavano: se mi va bene ho finito di tribolare, stiamo facendo un movimento, una cosa, se gira giusta entro anche io. Poi li ritrovavo dopo qualche mese ed erano incazzati, i fondatori li avevano mollati e loro, per ripicca, si erano consegnati all'altra parte, storditi dalle solite lusinghee. Lì si capiva che gli italiani sono incorreggibili, il loro “particulare” è insopprimibile, il loro moralismo utilitaristico è l'unica religione, il familismo amorale di Banfield a Montegrano si sposa benissimo con l'oligarchia di casta, di cognome. Quanti di quelli a saltellare coi Pulcinella dei diritti si erano consegnati entusiaticamente alla repressione vaccinale, al regime autoritario che gli imponeva siringhe, tamponi, multe, che toglieva il lavoro a loro e alle loro famiglie insieme alla salute, alla vita? Quanti si saranno chiesti se questo lavoro che arranca, che manca è anche conseguenza di quelle politiche sciagurate e irresponsabili? Tra pubblico e sedicenti artisti, furono tutti delatori e propagandisti, il padre di Leo Gassmann è passato alla memoria satirica come denunciatore ossessivo di coloro che non ubbidivano, uno che faceva coincidere i diritti con l'obbedienza, con la sottomissione al regime abusivo.
Agli italiani penosamente machiavellici va benissimo il nipote di attori o togati che fa il gioco delle tre carte, che può stare contro la globalizzazione sfruttatrice facendole pubblicità o comunque accettandone i privilegi, chi li contesta lo fa solo perché se ne sente scavalcato, per un fatto di emulazione: perché loro sì e io no? Questo è uno dei Paesi più retorici, più parolai del mondo ma con meno senso della collettività, del Paese, dello Stato, il suo livello etico è al di sotto dei regimi tribali africani, delle dittature orientali, delle false latinoamericane o balcaniche: viene fuori che una politica di potere da funzionaria al turismo imbarcava collaboratori, in seguito tutti assorbiti nello staff ministeriale, in crociere abusive, proibite dalla legge, è una che pare abbia falsificato i titoli di studio ma nessuno se ne costerna e nessuno ne chiede le dimissioni: bisogna andar d'accordo, la politica italica è uno stagno di ranocchi senza colore e in ogni caso vige la regola aurea del chi è senza peccato, virtù pressoché sconosciuta nel panorama del potere nazionale fatto di millantatori, di presunti laureati, di maneggioni senza scrupoli ma dai troppi scheletri.
Al concerto sindacale ufficialmente “per il lavoro”, slogan senza senso come quello della pace del mondo, si parla di tutto tranne che del lavoro: gender, guerre, rivoluzioni, clima, integrazione mentre, sotto al palco, tre integrati cercano di violentare una i cui strilli disturbano quelli del pubblico che la prendono a male parole. Si denuncia molto il ladrocinio capitalista ma gli orfani di Paolo Benvegnù, che arrivano al pessimo gusto di calcare la scena sfruttando la memoria del fondatore, tornano nel retroscena e si accorgono che sono spariti gli strumenti: pugno chiuso e mano lesta. A volerla raccontare come andrebbe raccontata, questa edizione “venti venticinque” per il lavoro del segretario Landini, che vuole cambiare lavoro ed entrare al Parlamento o Europarlamento, ha superato le colonne d'Ercole dell'imbarazzo, dello squallido, dell'ipocrita, ma tutti, anche i giornali di destra, anche i telegiornali della “Tele Meloni”, non se ne accorgono, esaltano gli ascolti, contano il ricavato pubblicitario, la grande liturgia contro il capitalismo salutata con accenti ultra-capitalisti in nome dell'oligarchia familistica e sindacale, la sinistra barricadera identica alla destra sociale nella sua diffidenza ambigua verso il liberismo, il profitto a tout prix. Critiche arcaiche, analisi primitive per un mondo totalmente cambiato, dove un magnate della tecnologia può ridare la parola con un microchip a chi sofre di patologie degenerative ma con le stesse tecnologie può costruire i guerrieri bionici, può spedire l'umanità nello spazio ma può anche lasciarcela prigioniera per l'eternità. Scenari e sfide totalmente incomprese, forse incomprensibili, comunque sideralmente lontane dalla retorica otto-novecentesca dei menestrelli a pugno chiuso, mettiamoci pure il decrepito Guccini che su Tik Tok, e ho detto Tik Tok, canta la solita Bella Ciao “contro Meloni e Salvini”. Ma agli italiani influencer basta il qui e adesso, e se è vecchio di secoli va bene uguale perché, come cantava il Vasco Rossi, “basta che ci sia posto”.