Mina tra essere e non essere, perennità di una artista diva che ha sconfitto il tempo, anche quello suo
La divina mimesi di Mina attraversa le epoche, le canta, le illustra anche dalla sua latitanza. Privilegio e talento di pochissimi, spiegare un tempo sociale non abitato, anzi disertato.
L'eternità senza tempo di Mina. Ottantacinque anni senza età, che non esistono, che lei non celebra, che si annullano come per chi ha smesso d'invecchiare da giovane, quando scomparve dopo l'ultimo concerto del 1978 alla Bussola. Una sola frase: "Mai più". Mina e non più Mina. Da allora, una lunga perenne ordinaria amministrazione, vivendo nel non tempo, nello spazio rarefatto di un ritiro elvetico, cavalcando epoche, rilasciando ologrammi ed avatar di sè. Mina è un eterno Techetechetè che conferma la fatale percezione: di Mina mai più un'altra, quella che c'è sarà per sempre. La migliore di tutti? Sono valutazioni impalpabili, opinabili, certo che a dispetto delle epoche vederla, ascoltarla è esperienza che travolge gli oceani d'inchiostro, i deserti di parole versati su di lei. Difficile aggiungere qualcosa, eppure proviamoci, partendo dalle intriganti percezioni che confessò Luca Goldoni: quella silhouette sinuosa ed elastica, un anno filiforme al limite dell'allarme, quello dopo rotondetta abbastanza da indurre turbamento, poi di nuovo eterea, tutta acconciatura su trame di nei angolosi, e così via per la carriera intera; sulle doti, a che pro insistere quando Louis Armstrong la definiva “la più grande cantante bianca del mondo”, e Renzo Arbore chiosava: “Nera, no; bianca, sì”?
Quel che fugge dai nostri personalissimi Techetechetè suggerisce tuttavia pensieri laterali: una modernità che è atemporalità, fin dagli esordi la perfetta padronanza di sé, del mezzo e della circostanza, per esempio a tu per tu con un malizioso Sandro Ciotti: “Ma che cattivo che sei”. Si dirà: ma erano tempi sfacciati, anche le altre non scherzavano, prendi una Patty Pravo. Sì, ma Patty, come chiunque altro, altra, voleva esserci, voleva piacere, imporsi, Mina pareva – pareva, fingeva – non preoccuparsene affatto, come chi si dà per scontato (il genio, diceva Goethe, presuppone la coscienza di esserlo). Con Ciotti, Mina non gioca alla femme fatale, gioca di rimessa, un catenaccio insidioso che sfocia in contropiede: già aveva sfidato, e sconfitto, i benpensanti, la morale chiesastica, coi suoi legami discussi, il primo figlio che prescindeva da calcoli di bottega. Salvo presentarsi così, a buriana chetata: “Io domando a voi: vi sono mancata?”. Certo, Mina sa come manipolare i media: ma sia chiaro che, quando li manipola, vuole dimostrarlo; ci mette un sovraccarico d'ironia. Il suo livello più sottile, invece, qui la sua atemporalità, cova in quell'apparente sottrazione, quello schermirsi sull'argine dello schernirsi, del non prendersi sul serio, ma per finta. Totalmente a suo agio, completamente brava, brava, brava anche quando non canta.
Altra spia d'eternità: si ripete sempre, per lei come per ogni prodigio artistico, che non patisce i calendari, cioè la sua arte rimane. È vero e non è vero. Nel panorama creativo, specialmente della musica convenzionalmente definita “leggera”, ci sono vari gradi di epifania. C'è la meteora, la cicala che canta una sola estate. C'è chi vivacchia sull'onda di un successo, e dopo tira a campare. E poi i bravi, che si difendono, si amministrano quanto possono, poi s'arrendono. Salendo nella massima serie ci sono i campioni, le campionesse buoni, ottimi per tutte le stagioni. Poi c'è Mina. Che, come Lucio Battisti, è buona per ogni stagione. Mina non è mai quella di prima; allo stesso modo, ha il dono d'incarnare (come Lucio) le mutazioni fisiche di una società gattopardesca alla rovescia, che forsennatamente cambia nell'apparente stagnazione. Se uno vuol capire cos'era il boom della fine dei '50 deve ascoltare Mina ragazzina, quelle prodigiose accelerazioni vocali, sintomo d'una gran fretta solare, di un passaggio storico irripetibile; già nella decade successiva lei matura, cambia l'approccio, la sua voce è quella, esplosiva ma più sorvegliata, di una consapevolezza ora gioiosa, ora già più problematica, perfino dolente; tra un soffiar di mille bolle blu e un musicarello ci accompagna nell'onda lunga del boom, poi dello sboom, dal Carosello di geniali pubblicità di pupazzetti affettuosi ai primi stridori contestatari che introducono una crisi che si autoadempie; nei conseguenti Settanta, la divina mimesi di Mina assume sfumature di benessere acquisito e un po' stanco, claustrofobico, sa di ficus in appartamento, di città vuota non per amore ma per fantozziana sincope, di domenica alienante, mentre i fantasmi degli amori danzano lugubri, irridenti quasi (coi tempi, cambiano le “problematiche” e, soprattutto, gli autori).
A quel punto la diva è già leggenda, tra pop, autore, bossanova e jazz riveste ogni firma, non si nega una sfida, pronta all'apologia che sorge dal gran rifiuto dopo l'ultimo concerto alla Bussola (c'è sempre una Bussola nel destino di Mina: per cominciare, per finire...). Il suo decennio rampante, “da bere”, annuncia un nuovo livello di sofisticatezza, un altro modo di cantare, inarrivabile e sfuggente e ancora, nella sua latitanza, una platea di ascoltatori può rispecchiarsi nella voce. Lei si protende nel futuro senza più corpo, incombente assenza, peso impalpabile della Storia. Così sempre più nel domani – indietro lei non torna.
Mina diventa virtuale prima della virtualità della rete, c'è ma non c'è, manca ma insiste di più, riaffiora opinionista sul filo di inevitabili spericolati qualunquismi, mentre i dischi scorrono, non lasciano le tracce di prima; eppure non la logorano le incursioni nella nuova musica d'autore, non sempre capita, non sempre resa al meglio, non la penalizzano le insopportabili leggerezze pubblicitarie, non la minano quegli eterni ritorni con Celentano. Mina celebra i 65 di carriera, gli 85 di vita fuori categoria: da sempre, da subito fa corsa su se stessa e alla fine smette di correre; come Mariolino Corso, interviene se ne ha voglia, quando ne ha voglia, basta un gesto per mettere in circolo una foglia morta così come muore un dolore. E questa non è una biografia in pillole, per l'amor di Dio, ma solo la testimonianza di uno stupor mundi che non passa ogni volta che Mina riaffiora. Fin da un disperso 1958, quando alla Bussola salì per gioco e non la facevano più scendere, lei nata per cantare, per quelle accelerazioni da Ferrari, e poi subito gli “Happy Boys”, e poi Baby Gate, e poi e poi e poi e poi...