Sgarbi, Veneziani e gli scrittori suicidi: un macabro divertissement letterario

Ho letto che Vittorio Sgarbi sta male ed è ricoverato in ospedale. Sono tra le migliaia (o decine di migliaia) di persone che hanno letto lo scritto di Marcello Veneziani

Non conosco Vittorio Sgarbi. L'ho incrociato al Premio Cesare Pavese nel 2012 e mi colpì il suo discorso, tanto provocatorio quanto colto. Ho intrattenuto rapporti amorosi con due sue ex, ma questa casualità non me lo rende più familiare (anche perché - a volte sbagliando - non ho mai domandato nulla sul passato delle mie frequentazioni femminili).

Ho letto che sta male ed è ricoverato in ospedale. Sono tra le migliaia (o decine di migliaia) di persone che hanno letto lo scritto di Marcello Veneziani. Veneziani: un maestro.

Depressione, rifiuto del cibo: un lento suicidio?

Ho sofferto di quella che alcuni definiscono la sindrome del reduce. Dopo il risveglio dal coma, nel reparto di terapia intensiva del Policlinico di Milano, ho scritto il mio primo romanzo. Un capitolo termina così:

“Spero che l’amore per mia figlia mi basti a sopravvivere. È l’unico amore che mi resta. Altrimenti mi metterò sul mio strano giaciglio composto da un tatami e un materasso dell’IKEA a rileggere L’attesa è magnifica di Gregor von Rezzori. Poi, quando sarò stanco, spegnerò la luce, come prima di me l’avvocato Corso Bovio, Ernest Hemingway, Edouard Levé, Primo Levi, Franco Lucentini, Vladimir Majakovskij, Sàndor Màrai, Yukio Mishima, Guido Morselli, Cesare Pavese, Emilio Salgari, Luigi Tenco, Ned Vizzini, David Foster Wallace, Virginia Woolf, Stefan Zweig e tanti altri che ora non ricordo – come Il Piccolo principe – tutti morti suicidi. E arriverò al punto B del mio segmento.”

Il nostro presente è distopico. Gli artisti ne soffrono quanto e più degli altri. Vittorio Sgarbi ha una sensibilità d'artista. Nessuno ha il diritto di giudicarlo. Nessuno ha il diritto di indicare – semplicisticamente – le ragioni della sua depressione. Comprendo l'intento dello scritto di Marcello Veneziani, la sua buona fede, ma mi ferisce ugualmente.

Nel 1940, “l'anno in cui il mondo si mostra paurosamente invecchiato” (Anna Seghers, Transito), mentre i nazisti marciano su Parigi, si suicidano Ernst Weiss, Walter Benjamin, Carl Einstein e Walther Hasenclever.

Ernst Toller e Joseph Roth si erano già suicidati nel 1939, Roth a modo suo, bevendo come il suo celeberrimo santo bevitore. Nel 1942 si suiciderà insieme a sua moglie (in Brasile) Stefan Zweig e il suo addio è oggi più che mai attuale: “Saluto tutti i miei amici! Che dopo questa lunga notte possano vedere l'alba! Io che sono troppo impaziente, li precedo. (...) Penso sia meglio concludere in tempo e in piedi una vita in cui il lavoro intellettuale significava la più pura gioia e la libertà personale il bene più alto sulla Terra.”

Il suicidio, atto estremo dalle motivazioni sempre personali e insondabili. Io rispetto tutti i suicidi. Luigi Tenco: “Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda Io tu e le rose in finale e una commissione che seleziona La rivoluzione. Spero serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi”.

Ma soprattutto Édouard Levé, autore di Suicidio, morto suicida: “L’egoismo del tuo suicidio ti amareggiava. Ma, sulla bilancia, la quiete della morte ha avuto la meglio sulla dolorosa concitazione della tua vita.”

Per Albert Camus, “Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia”. (Il mito di Sisifo).

Il suicidio è un atto violento, in ogni suicida c'è un omicida altruista: capace di violenza, ma contro se stesso.

Da Socrate a Cleopatra, da Cesare Pavese a Guido Morselli io i suicidi li rispetto. Tutti. Li rispetto e non li giudico. Il mio agnosticismo mi porta a credere che la vita sia la nostra dimensione, l'unica occasione. Rinunciarvi può essere un atto di fede in un altrove migliore, una rinunzia a un presente intollerabile o molte altre cose.

Spero che Vittorio Sgarbi desista, ricominci a mangiare, a prendersi cura di sé, perché lo stimo e mi dà piacere ascoltarlo, di tanto in tanto.

Ma al contempo lo comprendo: invecchiare, affrontare le malattie, i problemi della quotidianità, constatare, attimo dopo attimo che viviamo in un mondo retto da criminali è un'impresa per chi intelligente e sensibile.

Come ha scritto Richard Yates: vivere con lucidità, pericolosamente vicino all’abisso della piena consapevolezza, è difficile. “Vuoto senza speranza. (…) Molte persone si accorgono del vuoto, ma ci vuole davvero coraggio per vedere la mancanza di speranza”. (Richard Yates).

La mancanza di speranza, quella percezione che le nostre vite individuali e collettive siano minacciate avvelena il nostro presente distopico.

Come una notte senza stelle, senza sogni, andiamo alla deriva come naufraghi condotti da criminali malthusiani. Non posso che far mio l'auspicio di Stefan Zweig: “Che dopo questa lunga notte possa l'umanità rivedere l'alba!”

Di Alfredo Tocchi