Keith Richards fa 81 ed è strano, troppo strano, quasi irreale. Per tutti, ma non per lui
L'anima dei Rolling Stones non è un uomo come gli altri: ha imperversato a cavallo di due secoli, vissuto tutte le morti, regalato crimine e capolavori. Sempre ad inseguirsi, a sabotarsi, a superarsi con Mick Jagger, l'altro da sè.
Ogni volta che Keith Richards soffia le candeline sembra più assurdo. Più strano e più improbabile. Ma come fa uno che doveva morire a 25 anni ad averne 81? eppure ci arriva e anche in discreta forma, tutto sommato, considerato che ciascuno dei suoi anni pesa per cento. Sì, un po' imbolsito, rallentato, adesso le sue movenze sul palco non sono più da bestia feroce uscita dalla gabbia ma un po' da spirù, ve lo ricordate “Danziam lo spirù” di Natalino Otto? Rigido, a tratti patetico, ma non sottovalutatelo, neanche oggi. Uno che alla sua età tira fuori un'altra pietra preziosa come “Tell me stright”, dall'ultimo album “Hackney Diamonds”. “Il mio futuro sta tutto nel passato?”. Ed è impossibile non sentirsi travolti. Un assolo di poche note, perché le dita martoriate dall'artite non consentono di più, ma è impossibile non farsi spezzare. Tutto in Keith è sempre stato trasmissione di emozioni, il resto viene dopo, la tecnica viene dopo, va al servizio dell'essenza, non il contrario. Keith non ha problemi di ego, lui è, semplicemente, ed è talmente tanto che basta e avanza al mondo. Non deve convincere nessuno, non deve far vedere che sa suonare. Poi imbracci la chitarra, provi a stargli dietro e ti accorgi che è molto, molto difficile, più di qualsiasi assolo narcisistico, è impossibile suonare come lui, Keith, parafrasando Popeye, potrebbe dire: “Io sono quello che s(u)ono e soltanto quello che s(u)ono e questo è tutto quello che s(u)ono”.
E adesso, che non può più fumare, non può più drogarsi, gira sull'Orient Express come un personaggio di Poirot, si fa le foto coi barman e lo sguardo malandrino però è quello di sempre. Pochi hanno ecceduto il Novecento come lui, per di più restando vivi, pochi sono andati oltre il buon senso e il crimine, oltre la logica e la fisiologia, pochi sono stati tanto spietati e insieme vulnerabili. Keith è l'epitome del romanticismo moderno, la sua incarnazione. È il blues bianco che si fa negro, e ha sviluppato più cultura lui di mille filosofi, veri o presunti. E sta tutto in quella chitarra, in quella voce bruciata che s'infrange nel dolore, in quelle canzoni diverse da tutte le altre. Canzoni da zingari e pirati, che solo da lui sono credibili. Ancora in piedi, con orgoglio smisurato e la devozione di sempre per la musica, anche se forse nell'ultimo, davvero ultimo capitolo della saga Rolling Stones, Mick Jagger, l'altro da sé, ne esce meglio. Però non si sa mai. In fondo tutta la storia infinita degli Stones è la storia della dialettica Mick – Keith, fraternamente crudele, cozzo di ego mastodontici di chi è soltanto chi è e basta e avanza. Al mondo ma non fra loro. Un po' come in quella scena, quando Peppone e don Camillo si superano di continuo in bicicletta, perché nessuno vuol restare indietro. La differenza è che Jagger e Richards seminavano cadaveri, sul serio. Oltre sessant'anni, a cavallo tra due secoli, il mondo che cambia, tutto che cambia e loro sempre in cima al mondo e sempre a superarsi, a tagliarsi le gambe, a spararsi nei coglioni e a tirar fuori capolavori, per puro orgoglio, per dispetto, per rabbia e per amore. Fasi, decenni in cui prevale ora l'uno ora l'altro, ma se uno dei due crolla, l'altro lo aspetta, lo va a prendere, lo salva. Il resto del mondo può anche crepare.
Un gioco pericolosissimo, per chi sta intorno, ma tra questi due delinquenti del rock ha funzionato e resiste una certa ruvida lealtà: possono scannarsi, insultarsi, tradirsi, ma nessun altro può permetterselo: allora la piccola falange si ricompatta e chi ha osato verrà travolto, annientato. “Non possiamo divorziare” dice Keith. Una saga irripetibile, che noi, uomini del Novecento, abbiamo avuto il privilegio di vivere, sia pure di riflesso. E adesso eccoli qua, ultraottantenni, consumati, cadenti, ma non domi ancora. Schegge di loro tenute insieme dal carisma. “Ho chiesto a Mick com'era avere 80 anni, dato che lui li compie 5 mesi prima di me; niente di che, mi ha risposto, come il giorno prima”. Questa la filosofia: noi maciniamo il tempo che non ci aspetta e andiamo avanti, non ne facciamo un dramma, noi moriremo, ma il tempo lo teniamo per la coda e ci permettiamo di sprecarlo: 18 anni per fare un ultimo disco, che non sarà l'ultimo, perché l'anno prossimo uscirà il seguito, tutta roba registrata a suo tempo, ma che problema c'è? Il tempo non aspetta nessuno ma è dalla nostra parte. Perdono pezzi, sostituiscono pezzi, anche dentro di loro: tutti e quattro gli Stones si erano vaccinati, lo sappiamo, e il risultato è stato che Charlie Watts ha avuto una recidiva del cancro in gola di 15 anni prima, ed è morto; Ronnie Wood ha avuto una recidiva del cancro ai polmoni, e lo ha sconfitto ancora; Mick Jagger ha dovuto rifarsi la valvola mitralica; quanto a Keith, già offeso da una emorragia cerebrale quasi fatale nel 2007, dopo la quale non è stato più lo stesso, dopo il 2021 le sue condizioni sono percettibilmente peggiorate. Ma lui non dirà mai cosa ha sofferto, non lui, che ha vissuto tutte le morti, non lui che ha “sconfitto l'AIDS da solo, perché ho un sistema immunitario molto forte”. E vive con 7 placche di titanio che da quasi vent'anni gli tengono insieme il cervello. Ma cosa sarebbe il mondo senza Keith Richards? Un buco vuoto per noi che non possiamo immaginarlo, che nascevamo quando i Rolling Stones esplodevano per non smettere più, mai più. A me è capitato di sfiorarli, proprio fisicamente, nel 2007. Stavo all'Olimpico, mi pare, ingresso tribuna Monte Mario, transennata, inaccessibile, aspettavamo ci facessero passare ma qualcosa non tornava, c'era come una tensione sospesa, una attesa di ignoto e forse di sinistro. A un certo punto si materializzano dal niente alcuni suv tetri, neri, coi vetri oscurati, ne scendono alcuni gorilla spaventosi e poi, subito dopo, loro, i 4 Stones. Per l'eccitazione mi agito e finisco per tirare una gomitata a una bionda che mi sta a fianco, “Oh, scusi signora”. Era la moglie di Ron Wood, Jo, che lui avrebbe lasciato poco dopo per una di 19 anni poi finita in manicomio. L'apparizione di un attimo: Mick cupo, concentrato, chiuso in se stesso, Ronnie che fa il pagliaccio, saluta tutti, Charlie distaccato, quasi infastidito, finto svagato, ma si accorge di qualcosa e lo sussurra a Keith; e Keith, compiaciuto, si volta, spara un sorriso da cane e sparisce in una evocazione di ciondoli, di catene, di coltelli e di morte. Giuro che mi sono arrivate le sue vibrazioni, sapete, come quando stai davanti a un quadro famoso, in un museo, e ti gira la testa per la sindrome di Stendhal. Giuro che le ho sentite travolgermi quelle vibrazioni ed erano violente ma piene di gioia, una gioia terribile, infantile e stravissuta, irresponsabile e saggia, erano le ondate di uno che non è un uomo come gli altri, nel bene e nel male.81