L’ “arte delle banane appese” e “l’arte di mangiarle”. I paradossi del suicidio dell’arte nella società della recita totale (sempre più stanca e auto-logorante)

dove la fuffa-arte non fa ormai più ridere né centra più nulla con il bello e con l’arte stessa parlandosi invece dell’evaporazione del denaro e della saturazione della fiction

Il tema della “banana di Cattelan” appesa con lo scotch al muro ha riposto per un momento al centro del gossip massmediale il tema di cosa sia arte nella società dello spettacolo continuo e della recita totale. Discussione purtroppo anch’essa resa effimera per come è stata posta cioè come gossip e non quale reale riflessione culturale quanto effimera è la visibilità del pezzo venduto anche se la sua semplicità e iconicità lo rende facilmente simbolicizzabile e quindi più persistente nella debole memoria sociale. Anche tra 10 anni chi ama l’arte potrà dire: ti ricordi di quella banana appesa al muro venduta per milioni di euro? Anche se l’identità dell’autore sarà dimenticata il frutto tropicale spacciato per arte si potrà ricordare pur quale esempio negativo e sommamente ridicolo. Il tema per chi voglia approfondirlo è stato già esaurientemente trattato con ironia e profondità filosofico-ermeneutica da Angelo Crespi nel suo acuto saggio: Ars Attack. Il bluff del contemporaneo (Johan and Levi editore, 2013) dove l’autore chiama simpaticamente “sgunz” e non “arte” quelle trovate ad effetto che esauriscono nell’efficacia della comunicazione e/o nella novità del concetto (concettino) o dell’idea (ideuzza) progettuale tutto il loro debole, effimero e vuoto esserci. Gli esempi sono infiniti: la “Venere degli stracci”, l’Ade del Bernini rifatto in acciaio da Jeff Koons (almeno il modello era ottimo) fino all’opera d’arte “invisibile” (ci devi credere) con a fianco l’unica cosa visibile cioè la sua didascalia siamo di fronte sempre alla medesima sterile e tediosa ripetizione dei moduli aforistici e autoreferenziali di Piero Manzoni (“Base magica”, 1961) e di Handy Warhol (i celebri “15 minuti” di notorietà e “This is not by me”). Da allora la retorica mercantile della “non opera” (e non-arte) contrabbandata come opere d’arte grazie alla potenza massmediale del mercato dell’arte contemporanea e grazie a facili moduli di comunicazione performativa-spettacolarizzante possiamo dire che non si sia mai fermata anche se è indubbio come oggi ad un occhio attento mostri segni di strutturale stanchezza e auto-logoramento. Non è sempre vero che “il potere logora chi non c’è l’ha” se il potere resta prigioniero di un proprio sguardo unilaterale e riduzionistico. Appare evidente a tutti, anche a chi non sia esperto o appassionato di arte, che non può attribuirsi tale qualificazione a realizzazioni non trasformative, non trasfiguranti e prive di qualsivoglia pur minima narratività e intensità assiologica. Non basta questa volta dire: “ma è stato il primo a farlo!” a chi obbietta superficialmente: posso farlo anch’io. Non è questo il punto. Il punto è: non c’è alcuna bellezza, né estetica, né tecnica, né declinazione di linguaggio e neppure pensiero o progetto nè concetto in un frutto appiccicato al muro. Puro “non senso” e vuoto totale. Non solo non è arte ma non è alcunchè d’altro, né fa ridere. Neppure quello. Il fatto che il dio Mercato abbia fatto il suo miracolo di moltiplicazione estrema del valore commerciale di un “quasi nulla” in reali milioni di euro questa volta non può convincere nessuno realmente e appare operazione priva di ogni fascino e di ogni aura. Siamo ormai lontani anni luce dalla gloria del pop americano anni 50-70 che si fondava appunto sull’ammiccante gioco di reciproca seduzione fra estetica e mercato. Siamo al piattume spinto, all’irrilevanza estrema, allo squallore netto e piano. Più interessante invece è l’altra operazione simil-artistica data dal gesto teatrale del miliardario cinese che morde e mangia la “banana d’artista” tentando di entrare lui stesso nel campo dello sgunz internazionale, della fuffa-arte con un’azione che sembra più artistica di quella di Cattelan in quanto certamente più manipolativa e più trasformativa. In realtà anche questo gioco di secondo livello tradisce il vuoto nichilistico della non-arte da cui deriva dimostrando solo la ricchezza esagerata dell’acquirente che può permettersi di bruciare milioni di euro per gioco. Ennesima dimostrazione che il Mercato senza idee né visione né capacità non riuscirà a perpetuare se stesso oltre la propria autodistruzione. Il gesto di mangiare la banana venduta come arte a caro prezzo questo sì può divenire un gesto simbolico ed emblematico del suicidio dell’arte nella società del Mercato totale e del fanatismo consumante privo di qualsiasi spessore.  Dopotutto quale icona migliore di una banana per il mondo pericoloso ed evanescente delle criptovalute?