Manifesto del libero pensiero nel Cinema, nell'Arte e nella Parola, contro i movimenti woke e l'idiozia della cancell culture

Cinque giornalisti, cinque amici, cinque individui liberi e stanchi delle dittature del politicamente corretto, hanno scritto quella che può essere intesa come una vera e propria denuncia contro i crimini della nuova "non" cultura americana

Care lettrici e cari lettori, prima di lasciarvi alla nostra riflessione sui disastri del politicamente corretto di cui noi per primi siamo stati vittime, vogliamo ringraziare il Giornale d'Italia, uno degli ultimi veri spazi liberi dell'informazione italiana, e ovviamente anche il buon Aldo Luigi Mancusi, nostro coordinatore e amico, nonché editorialista di questa storica testata. Abbiamo scritto queste poche righe dopo una lunga riflessione, dovendo scegliere tra la libertà e l'obbedienza lavorativa alle follie criminogene woke che stanno rendendo il mondo l'inferno che è. Non useremo questo spazio per fare nomi o mettere in piedi ripicche sciocche che non ci interessano, perché il nostro unico obbiettivo è fare il nostro lavoro e farlo bene, senza i condizionamenti imposti dall'alto di una morale disgustosa che ci repelle. Presto ci vedremo in altri lidi per parlare di cinema, musica, cultura e attualità, magari in partnership proprio con il GdI, ma per il momento vogliamo solo ringraziarvi ancora dell'attenzione, sperando che condividerete con più gente possibile il nostro pensiero.

Di A. L. Mancusi, N. Ratto, V. Tirittera, D. Pucci, G. Mortella

C’è stato un tempo in cui un autore poteva definire un personaggio come “enormemente grasso”, un periodo in cui essere una “cassiera in un supermercato” o una “dattilografa” non era offensivo, un’epoca distante in cui leggere Rudyard Kipling non significava sostenere l’imperialismo britannico, un mondo in cui nelle scuole si studiava Mark Twain e per le strade si potevano utilizzare termini come “nano”, “zingaro”, “ebreo” e persino “negro”.   

Proprio quest’ultimo termine, adottato correntemente da autori come Petrarca, Ariosto e Carducci, non ha mai avuto nella sua etimologia un carattere dispregiativo, né tantomeno volgare, almeno sino alla fine degli anni ’70, quando gli echi delle lotte per i diritti civili e una maggior diffusione della lingua inglese ne stravolse l’accezione. Il termine italiano negro è etimologicamente equivalente all'aggettivo nero (dal latino niger / nigru(m)) del quale si considera un sinonimo e per questo spesso adottato nella letteratura.

Lo ritroviamo nel celebre romanzo abolizionista La capanna dello zio Tom, di Stowe (1852), e nelle opere di uno scrittore progressista come Mark Twain. Già, l’autore di quei due capolavori letti da intere generazioni come Le avventure di Tom Sawyer e Le avventure di Huckleberry Finn, prima che nel 2019 lo stato americano del New Jersey introducesse una risoluzione chiedendo la rimozione dei suoi testi. Non che in Europa o nel resto del mondo le cose andassero poi tanto meglio. In Italia è da anni che non si vede un’opera di Twain tra i banchi di scuola. La colpa si dice risieda proprio nell’uso di epiteti razziali, nell’utilizzo di stereotipi offensivi e in generale nella rappresentazione di un’epoca storica che il mondo intero vorrebbe cancellare. Un po’ come se all’improvviso noi tutti pretendessimo che gli orrori nazi-fascisti non fossero mai esistiti.

Cancellare. Un diktat imperante in quella che oggi viene definita “cultura woke”, ma che in realtà affonda radici profonde nel “politicamente corretto” e vede nella “cancel culture” la massima espressione di censura totalitaria. Un riverbero di quella damnatio memoriae ben nota ai romani e puntualmente messa in atto in periodi di profondo decadimento culturale. La storia è purtroppo piena di tragici esempi di epurazioni. Basti pensare al sistematico sterminio degli ebrei, degli zingari, delle stesse popolazioni slave a opera dei nazisti o di quelle asiatiche per mano dei giapponesi a cavallo tra gli anni ‘30 e ’40. Non sorprende quindi il ritorno a uno strumento di controllo atto a manipolare le masse, a dividerci gli uni dagli altri, illudendoci di avere ancora qualcosa da dire quando in effetti contiamo ben poco. Cancellare tutto e tutti, senza distinzioni, per un tweet, un post o qualcosa detto in confidenza tra amici. Perché in fondo siamo tutti uguali, e anche se così non fosse possiamo sempre cancellare ogni differenza.

"Se dici qualcosa, sei cancellato” - ha ribadito il famoso attore Anthony Hopkins - “Le persone vivono nella paura. E questo richiama alla Germania nazista, ricorda l'Unione Sovietica e Stalin, il maccartismo americano. La dittatura del pensiero 'giusto' è terribile".

Da Cristoforo Colombo a Junipero Serra, passando per Harper Lee, Charles Dickens, Virginia Woolf, Agatha Christie, Roald Dahl, Theodor Seuss Geisel, senza contare Raymond Chandler e il premio Pulitzer Colson Whitehead, nessuno si salva dalla ghigliottina della cancel culture. Basta pensare che in Olanda, la casa editrice Blossom Books ha deciso di rieditare l’Inferno dantesco, escludendo Maometto dalle Malebolge, mentre le autorità di Tucson (Arizona) hanno vietato nelle scuole il romanzo La tempesta di William Shakespeare per colpa di Calibano, metafora del colonialismo.  

 

A tal proposito fanno riflettere le parole di Ayanna Thompson, professoressa all’Arizona State University: “Shakespeare era uno strumento utilizzato per ‘civilizzare’ i neri nell’impero inglese”. Dichiarazioni a cui fanno coro quelle di Claire Bruncke, insegnante dello stato di Washington: “Bisogna allontanarsi dalla narrativa di uomini bianchi, cisgender ed eterosessuali”. 

Una recente inchiesta del The Times ha fatto emergere che ben 140 biblioteche di atenei inglesi hanno messo al bando alcuni tra i capolavori della letteratura mondiale. L’accusa è quella di non rispettare i canoni della sensibilità odierna, come se oggi ciascuno di noi avesse perso ogni facoltà critica. Un ritorno all’indice dei libri proibiti, che purtroppo non si limita ai testi scritti, ma contamina l’intero mondo artistico. Come non ricordare le statue di nudi coperte da pannelli bianchi per non urtare il pudore dei visitatori, o la censura social dei nudi di Egon Schiele e dei dipinti di Peter Paul Rubens. Un attacco che si estende ovviamente anche alla musica e soprattutto alla settima arte.

Impossibile non pensare alle assurde critiche mosse a Via Col Vento (1939), Colazione da Tiffany (1961), Biancaneve e i sette nani (1937), Dumbo (1941), Le avventure di Peter Pan (1953) e persino Gli Aristogatti (1970).

Così si esprimeva nel 2019 Todd Phillips, il regista di Joker, ai microfoni di Vanity Fair: "Provate a essere divertenti oggi con questa cultura woke. Sono stati scritti articoli sul perché le commedie non funzionano più - vi dirò perché, perché tutti i fottuti comici sono tipo, 'Fanculo questa merda, perché non voglio offendervi'. È difficile discutere con 30 milioni di persone su Twitter. Non puoi farlo, giusto? Quindi dici semplicemente, 'Sono fuori'. Sono fuori, e sai cosa? Tutte le commedie sono irriverenti”.

Nel 2022 la stessa Helena Bonham Carter, star di Fight Club (1999) e Sweeney Todd: The Demon Barber of Fleet Street (2007) si esprimeva così in un’intervista per il The Times: “Ha senso escludere un genio solo per le sue pratiche sessuali? Se scavassimo nel passato di chiunque, sono certa potremmo trovare qualcosa di discutibile. Ma non possiamo censurare così le persone. Questa caccia alle streghe moderna, la cancel culture, è una cosa davvero ridicola".

A questo punto sorge spontanea più di una domanda. Edulcorare l’intero patrimonio artistico permetterà forse alle nuove generazioni di affrontare meglio gli orrori del mondo reale? Proteggerle all’interno di un’illusoria campana di vetro, li aiuterà a sviluppare un pensiero critico? A cosa serve cancellare, censurare, se non a evitare una crescita personale e quindi anche sociale?

Peccato la storia non sia fatta per essere cancellata, bensì studiata. Un monito per interrompere quell’uroboro di pericolosi circoli viziosi che ciclicamente la stupidità umana tenta di ripetere, accentuando quel clima d’intolleranza e divisionismo in cui prospera soltanto l’ignoranza.

Come recitava il personaggio di Tancredi in quel gioiello del Gattopardo: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”.