"Un assaggino, avvocato?", Julieta, cubana alta 1,78, 20 anni con una terza abbondante, "che desiderio di farla mia"

Lei può commettere ogni tipo di sbaglio, può essere noiosissima e scontata, ma il desiderio di farla mia resterà invariato. Dio che delizia la sua pelle color cioccolato al latte, che consistenza inebriante la sua carne…

Quando inizia a far caldo, mi piace mangiare seduto ai tavolini del bar Bones. Salvo è un amico, i panini sono buoni e il prezzo ragionevole: tre ottime ragioni. Da una settimana, avevo una ragione in più: Julieta. Cubana, 1,78, una terza abbondante, un sorriso che esprime tutta l’alma de Cuba. Abbordo sempre le cameriere, è un passatempo come un altro. Così, tra un sorriso e uno sguardo alla terza abbondante, Julieta mi ha raccontato di essere arrivata a Milano insieme a un figlio di puta che le aveva promesso mari e monti e poi l’ha lasciata per tornarsene con sua moglie.

Ho messo le mani avanti: “Io sono divorziato e non ho nessuna intenzione di tornare con mia moglie”.

Lei ha riso, prima discretamente, poi fragorosamente: “Tu da giovane dovevi essere un playboy”. “No, ma adesso me la cavo”.

Cosa fai nella vita?

Scrivo. Cioè, sono un avvocato. Però scrivo romanzi meravigliosi”.

Il mito di Hemingway deve essere ancora molto forte a Cuba, perché lei mi ha osservato con occhi sognanti da cerbiatta: “Avvocato e scrittore…”.

Sì, e tu cosa facevi a Cuba?

Ballavo”.

Si vede, hai un fisico da ballerina. Mia moglie era una ballerina”. Dato che restava al mio tavolo, trascurando i clienti seduti accanto, ne ho approfittato: “Posso invitarti a cena?

Risposta immediata: “Sì, ma scelgo io il ristorante”.

Va bene, scrivimi ora e indirizzo che passo a prenderti”.

Ha estratto il blocchetto delle ordinazioni e scritto veloce, ma il gesto non è passato inosservato. Alla cassa, Salvo mi ha domandato: “Ti ha dato il telefono?”

Forse”.

Rientrato a casa, ho corretto le bozze della raccolta di racconti. Alle sette sono sceso con Wigo, poi mi sono fatto una doccia, vestito (perfetto per una serata con una ballerina cubana ventenne) e alle otto e venti ero al volante della Cadillac, diretto all’indirizzo scritto da Julieta.

Ai semafori, accostando le altre auto dei milanesi, li osservavo come se li vedessi per la prima volta. Volti stanchi, persone nervose, pronte a suonare il clacson al minimo indugio dell’auto davanti a scattare al semaforo verde. Loro cosa vedevano? Un cinquantenne in giacca e cravatta al volante di una Cadillac, naturalmente. Stesso destino comune di predestinati a una vita normale, ma quello in Cadillac un filo più esibizionista (per non parlare dei Cure a tutto volume!).

Alle nove, puntuale, ero sotto casa di Julieta: un casermone degli anni trenta in una traversa di Corso Buenos Aires. Parcheggio sul passo carrabile e una vecchietta inacidita milanese (sono ovunque!) mi guarda in tralice e mormora qualcosa, trascinando al guinzaglio un cagnaccio spelacchiato.

Per fortuna Julieta è arrivata quasi subito, elegantissima in un tubino da sera.

Scendo per aprirle la portiera e lei mi dà un bacio sulla guancia.

Dove andiamo?

Qui vicino, ti indico io la strada”.

Ristorante di pesce?

Sì, come fai a saperlo?

So tante cose, per esempio che le donne al primo appuntamento vogliono mangiare pesce e ridere”. Non concludo la frase (gli uomini invece vogliono mangiare carne e scopare), perché lei già ride: “Sei proprio un bel tipo”.

Sì, un vecchietto arzillo”.

Ride di nuovo: “Non sei vecchio, avrai l’età di mio papà”.

Forse, ma per fortuna non sei mia figlia”.

Si fa seria e mi domanda: “Perché per fortuna?

Perché così ti posso corteggiare”.

Si tranquillizza. Io mi rilasso e mentre lei mi indica dove svoltare, osservo lo stampo del capezzolo perfettamente impresso nel tessuto del vestito.

C’è un parcheggio proprio lì avanti”.

Lasciata l’auto, facciamo quattro passi e arriviamo al ristorante. Le faccio strada, lei entra e tutti si voltano. D’istinto mi raddrizzo (sono più di un metro e ottanta, lei coi tacchi è più alta di me di quattro dita). Al bar Bones si vedeva che è bella, ma così, pettinata, fasciata nel tubino nero, è magnifica. Cosa desidera una ragazzina cubana di vent’anni a Milano? Una bottiglia di Pigato, una frittura di gamberi, un uomo che le dia quella sicurezza economica che le è mancata per tutta la vita, e poi?

Mi racconta di Cuba, di sua madre, del padre che ha perso il lavoro, di suo fratello… Sono uscito a cena per cinque anni con ragazze conosciute sui siti per incontri, è tutto molto scontato. Sarebbe bello se qualcuna riuscisse a descrivere la sua vita con l’ironia e la leggerezza necessarie al primo incontro, ma non succede mai. Io evito ogni accenno ai miei problemi, ascolto, annuisco e rifletto sulla banalità della situazione: un uomo di mezz’età, una ragazzina, un ristorante mediocre e troppo caro, una città che di moderno non ha nulla e sarebbe soltanto un puntino sulla carta geografica se non fosse per la moda… Ma l’unica vera riflessione è che lei può commettere ogni tipo di sbaglio, può essere noiosissima e scontata, ma il desiderio di farla mia resterà invariato, perché con tutta la mia posa da intellettuale sono soltanto un vecchio maschio arrapato. Dio che delizia la sua pelle color cioccolato al latte, che consistenza inebriante la sua carne…

Finiamo di mangiare e le verso l’ultimo bicchiere di vino. Lei china il capo e mi sussurra: “Grazie”.

La fisso negli occhi, avvicino la testa alla sua e, quasi in un orecchio, le dico: “Prego”. Si volta e la bacio. Ci provo sempre, con tutte. E’ una questione di coraggio. Molte non ci stanno, ma qualcuna invece sì. Lei si lascia baciare, poi mi sorprende: “Se vuoi, vengo a dormire da te”.

Esiste un uomo che non vorrebbe?

Ride: “No, non credo. Però poi mi fai un regalo”.

La fisso negli occhi: “Cosa intendi?

Quello che vuoi tu, un regalo oppure soldi”.

Non pago più. Ho pagato soltanto per tre mesi in tutta la mia vita, poi ho giurato di non farlo mai più”. E’ la prima cosa seria che dico in tutta la serata e mi rendo conto che è una cosa di troppo.

Con me sarà diverso, io ti farò impazzire. Non potrai più vivere senza di me”.       

Forse. Ma non lo sapremo mai”.

Lei abbassa lo sguardo. Peccato, era stata una bella serata. Ora è definitivamente, irrimediabilmente finita. Io sono tornato la vecchia Genoveffa che sono, lei la Cenerentola disposta a darsi per un regalo.

Pago il conto. In strada, diretti al parcheggio, lei gioca la sua ultima carta: “Facciamo così, per questa notte non mi paghi, però prometti di pagarmi la prossima”.

Scoppio a ridere. Ricordate i vecchi salumieri furbi di una volta, quelli che all’avvocato facevano assaggiare una fettina di culatello per convincerlo all’acquisto?

Un assaggino, avvocato?

La abbraccio forte, le voglio improvvisamente bene: “Ti ringrazio, ma è meglio se ti porto a casa”.