Conservatorismo liberale, elementi del pensiero politico di Benedetto Croce il filosofo non laureato. Prima parte

"La libertà innanzi tutto e sopra tutto" Benedetto Croce - «Il Giornale d'Italia» (10 agosto 1943)

La filosofia politica di Benedetto Croce (Pescasseroli 1866 – Napoli 1952) possiede due macro tempi di pensiero, lo spartiacque è il 1924. Venne accolto in un collegio dei Padri barnabiti, per poi iscriversi alla facoltà di giurisprudenza, a Roma, senza laurearsi né presentarsi agli esami. Viveva nella capitale in casa dello zio Silvio Spaventa dal 1883, dopo aver perso i genitori e la sorella nel tragico terremoto di Casamicciola. Le uniche lezioni accademiche che inizialmente lo interessarono furono quelle di Antonio Labriola, per il resto sviluppò da solo la sua sterminata cultura, viaggiando in molti paesi europei. L’amicizia con Giovanni Gentile (1896) gli fa abbandonare un acerbo e parziale interesse verso il marxismo. Insieme fondarono la rivista “La Critica” (1903-1944). Dal 1945 al 1951 i “Quaderni della Critica”, venne nominato Senatore del Regno (1910), Ministro della pubblica istruzione con Giolitti (1920-21), appoggiò con favore la svolta autoritaria fascista del 1922, prendendone le distanze e stigmatizzandola il 3 Gennaio 1925. Nel secondo dopoguerra fu presidente del partito liberale, ministro senza portafoglio, consultore nazionale, deputato alla Costituente. Tornando all’incipit del nostro scritto la prima parte del pensiero crociano si concentra sull’essenza del fenomeno politico rispetto alle altre forme del pensiero e dell’azione. Nella seconda Croce si occupa del tema intorno all’architettura della migliore forma di governo. Per Croce la politica rientra nella sfera pratica, nell’azione interessata in modo sano e senza preoccupazioni morali, pura creazione della storia. La sfera politica è “hobbesiana”: “L’individuo è chiamato al mistero doloroso del farsi della Realtà e perciò alla perpetua lotta, che dal contrasto quotidiano giunge fino al contrasto armato o guerra; ed esso non può arrogarsi di cangiare le leggi – le leggi divine – dl mondo, ma deve soltanto difendere la causa del popolo del quale egli è parte, e mantenere ad oltranza il posto che dalle sue particolari condizioni gli è stato: fiducioso che dall’opera sua, lealmente e rigorosamente adempiuta, nascerà il maggiore bene possibile. – ma questa vostra concezione (si dirà) è religiosa! – As you like, se così vi piace; ma di quella religione, che è insieme filosofia”.1 Per Croce dunque la guerra è un fenomeno inevitabile e tragico nel “destino” degli uomini, fermo restando obbligatoria e doverosa la devozione patriottica allo Stato e alla Nazione, in chiaro contrasto con la “superficialità” dell’illuminismo e in particolare con la sua manifestazione d’eguaglianza, più tarda e tirannica e sanguinaria (Il terrore nella rivoluzione francese del 1793), deviante nelle ideologie. La prima guerra mondiale, che vide Croce in chiara polemica con l’ideologia democratica dell’Intesa, venne da filosofo etichettata però in qualità di opportunità e verifica della teoria di stato-potenza e della politica come forza per il Regno d’Italia: “Se non profittiamo di questa dura guerra per liberarci dai preconcetti astrattamente umanitari e renderci familiare la vera dottrina dello Stato, quando diverremo savi?”2. L’economia per Croce è una sezione della politica densa di etica. La politica ha un volto più angusto rispetto alla sfera morale, che attinge alla spiritualità, da qui il carattere spesso malinconico e laconico degli uomini politici migliori, l’ottima politica è per Croce, e non può essere altrimenti, conservatrice e liberale.

1 “La Critica”, 1916, p. 483

2 L’Italia dal 1914 al 1918, Bari, 1950(3), p. 105