“The Ballad Of Darren”, la riconferma non eraclitea in studio dei Blur sempre diretti da Damon Albarn
A otto anni di distanza da "The Magic Whip” l'estate in corso registra l'uscita del nuovo album della band britannica
A otto anni di distanza da "The Magic Whip” abbiamo ascoltato con attenzione il nuovo album dei Blur. A partire dalla seconda metà degli anni Novanta del secolo scorso ho iniziato a risiedere sempre più spesso a Londra, a quel tempo il duello tra gli Oasis e i Blur era arrivato a un punto tale che all’ingresso nei pub, al fine di evitare frizioni tra i clienti, i titolari, o chi per loro, chiedevano quale tra le due band era di gradimento in caso di orientamento non in sintonia con il locale, venivano orientati in altri pub (tenete conto che i pub britannici al 90% chiudono alle h23, avendo il picco di avventori già dalle h18) più o meno distanti in superficie e artisticamente. I cari e “vecchi” Blur dunque in sonno per anni e poi riapparsi per mezzo di un annuncio a sorpresa di una nuova incisione. "The Ballad Of Darren" trae ispirazione da un murales raffigurante Leonard Cohen che Damon Albarn poteva osservare dal suo hotel di Montreal, in Canada, nel corso di un viaggio avvenuto tempo fa. L’album è composto da ballate preannunciate già nel titolo stesso della registrazione. Presentato in anteprima come un "aftershock record", è invece un breakup-album quello che Albarn ha scritto per la sua band ventiquattro anni dopo il primo capolavoro: "13" del 1999. E’ la volontà di essere nuovamente ascoltati da un pubblico in attesa, già a partire da questa estate in corso, del gruppo di Colchester che non è un ritorno nostalgico e prevedibile ai Blur di trent'anni fa, ma che descrive l’evoluzione personale dei suoi componenti, riusciti a rimanere validi e apprezzati ancora oggi. "È stato come un cataclisma che si è abbattuto su di me. Spero di non doverlo vivere anche una terza volta", è il commento che Damon Albarn effettuato per mezzo di un'intervista intorno alla rottura sentimentale che caratterizza le composizioni, "Barbaric" è l'aggettivo che usa per definirlo e che dà il titolo al terzo brano dell'album, quello in cui avviene lo svelamento. Un disco riflessione, più vicino all'esperienza solista di Albarn che alla produzione con i Blur, ma che conferma la grande capacità del musicista inglese di mettersi a nudo senza risultare patetico, esuberante o sopra le righe. Uno stato d'animo che, forse, è implicitamente racchiuso anche nella copertina: uno scatto del fotografo Martin Parr che ritrae un uomo solo, in mezzo a una una piscina, sotto un cielo plumbeo e minaccioso. Burt Bacharach è, dopo Cohen, il secondo nume tutelare del disco. Le sue linee melodiche, gli arrangiamenti dei fiati, la dolcezza dei suoi versi riecheggiano più volte nei trentasei minuti dell'album, minuti che cercano di travolgere l'ascoltatore in un turbine emozionale tra attimi di introspezione affidati a ballad pregevoli ma con disappunto, che richiamano i Blur dove il noise di Graham Coxon emerge con veemenza. C’è "St. Charles Square" subito dopo l'incipit patinato di "The Ballad": garage-rock originario in cui il chitarrista ha quasi ricreato i Blur del secolo scorso senza nostalgie o rimpianti, come nella coda di "The Heights", che congeda l'ascoltatore con una detonazione acustica. Tra le note e i riff elettrici e i momenti cantautorali segnaliamo "The Everglades (For Leonard)", ancora una affascinante "Goodbye Albert" e la introspettiva "Far Away Island". Ordinarie invece composizioni quali "The Narcissist" e "Barbaric", esempio, quest'ultima, di art-pop che non cade nel banale o nello stereotipo. "The Ballad Of Darren" dona nuove chiavi di lettura a una sempre nuova e originale materia musicale. Il sound dell'album è denso di esperienze “soliste” che i membri hanno portato avanti nel corso degli anni. I Blur sono e non sono, allo stesso tempo, la band di trenta anni fa in modo non eracliteo.