Isbucenskij, nell'odierna località russa 81 anni fa l’ultima carica nella storia della cavalleria europea del "Savoia Cavalleria"

24 agosto 1942 a Isbucenskij, nell’odierna Russia, si svolse un episodio di gloria, valore e coraggio che valse al Reggimento “Savoia Cavalleria” una splendida vittoria con le sciabole sguainate contro due battaglioni sovietici di artiglieria leggera

24 agosto 1942 a Isbucenskij, nell’odierna Russia, si svolse un episodio di gloria, valore e coraggio che valse al Reggimento “Savoia Cavalleria” una splendida vittoria con le sciabole sguainate contro due battaglioni sovietici di artiglieria leggera. Il Generale Messe conferì per l’occasione: due medaglie d’oro e cinquantaquattro d’argento. All’alba il Colonnello Conte Alessandro Bettoni Carrago dette l’ordine di sfilare dalla custodia lo stendardo, intorno c’erano i bivacchi e i fuochi sovietici. L’attacco fu portato prima con le armi automatiche e con l’appoggio del gruppo d’artiglieria, poi con l’intervento del II Squadrone a cavallo. All’antico grido di “Caricat!”, prima al passo, poi al trotto e al galoppo la cavalleria italiana sorprese il fianco sinistro avversario. Fu poi la volta del III Squadrone Reale, il nemico, sorpreso, finì per sbandarsi, lasciando sul campo centinaia di prigionieri. Quel giorno il “Savoia Cavalleria” era senza contatti e isolato per oltre cinquanta chilometri, senza possibilità di chiedere rinforzi. Nottetempo quattromila sovietici avevano attraversato l’ansa del Don con cannoncini e mitragliatrici al seguito, al fine di accerchiare ed annientare i reparti italiani. Il Colonnello Bettoni dette gli ordini per l’attacco. Il I Squadrone sarebbe andato alla carica con una conversione a destra, il Secondo, guidato dal Capitano De Leone, immediatamente dopo, puntando al centro, il IV di Alberto Litta Modignani con il Tenente Ragazzi e il Tenente Abba, e contemporaneamente il III Squadrone con il Comando al completo. All’alba l’aristocratico Colonnello Bettoni si fece dare dall’attendente un paio di guanti bianchi nuovi, serrò il monocolo nell’occhio e saltò a cavallo ordinando la carica. Il primo reparto che andò a galoppare contro le mitragliatrici e i cannoncini nemici ebbe quasi 3/4 di uomini e cavalli fuori combattimento tra morti e feriti. Ma la travolgente energia delle tre cariche successive fu tale che i sovietici pensarono di avere di fronte non un solo reggimento, ma almeno tre, e le truppe che avevano attraversato il fiume Don (il loro obiettivo era la città di Rostov, cui dovettero rinunciare, rinviando l’azione militare così a molti mesi più tardi) fuggirono riattraversando a ritroso il fiume. La Cavalleria imperiale italiana (e occidentale) aveva scritto la sua ultima pagina di gloria nello stile degli antichi cavalieri. Molti degli ufficiali più valorosi erano caduti morti con i loro fedeli cavalli tra i girasoli nella steppa, dando però un’aristocratica vittoria sui sovietici al Regno d’Italia, d’Albania e all’Impero d’Etiopia. Bettoni volle che, anche nelle steppe russe, il “Savoia” non perdesse nulla del proprio stile. Il Reggimento doveva comportarsi come se da un momento all’altro potesse arrivare il sovrano in persona. Anche sotto la tenda, la tovaglia della mensa ufficiali doveva essere candida, le posate d’argento, le stoviglie con incisa la sigla reggimentale, i soldati addetti al servizio in giacca bianca, pulita, senza macchie. Il 9 settembre 1943 Bettoni si trovava a Milano con il suo Reggimento in attesa di destinazione. I tedeschi, dopo l’annuncio dell’armistizio firmato da Badoglio, ordinarono alle truppe italiane di restare chiuse in caserma e di consegnare le armi. Invece Bettoni ordinò ai suoi di armarsi e montare a cavallo. “Se i tedeschi vogliono le nostre armi – disse – se le vengano a prendere”. Sfilò con i suoi squadroni armati per la città dirigendosi verso Como, raggiunse il confine, e dopo una marcia di quarantacinque chilometri entrò in Svizzera. Da parte tedesca non venne tentata nessuna azione militare per ostacolare o fermare le colonne del glorioso “Savoia Cavalleria”.