Dieci anni fa moriva Enzo Jannacci, musicista e medico umano e bizzarro. Ci manca sempre

Un pianeta con intorno un sistema di cabarettisti, di folli, di creativi irripetibili in una Milano irripetibile

Dieci anni che se n'è andato portandosi via Milano. Perché non c'è niente da fare, son quegli uomini lì, nati per essere pianeti e intorno hanno un sistema. Il sistema Jannacci era un cabaret continuo e cangiante, fatto di Cochi e Renato, Dario Fo e Gaber, più avanti Abatantuono e un sacco di quella gente lì. Lui al centro, con le sue canzoni che sembra che ridi e ti ritrovi a piangere di una disperazione milanese, perché c'è la saudade anche a Milano, basta saperla trovare, in quei bagliori di cielo metallico o di sole che sfonda, in quella luce polverosa che raramente è tersa e quando è tersa allora fa piangere di più perché uno dice, ma non potrebbe sempre essere così. E l'Enzo con gli occhiali da nerd che invece prende tutti per il culo, ma mica per cattiveria, è fatto così, gli viene così, se entra uno strano lui e Beppe Viola, altro fuori di testa creativo, si guardano, eccone uno dell'Ufficio Facce. E che altro puoi fare a Milano se non esorcizzare così la saudade? Una vita tutta così da lucido pazzo, o pazzo lucido, fai te, è uguale, e poi muore a Pasqua, dieci anni fa, una Pasqua anticipata, ma è un dispetto da carogne, da artisti, da disadattati. Lasciar lì il posto vuoto era l'ultimo sberleffo da giullare, da cantastorie messo da parte e così Jannacci si vendicava arrendendosi al male di venerdì santo, lui che in chiesa non ci andava ma dentro aveva “un seme, qualcosa che cresce piano piano”. Sparito nella pioggia insieme con le visioni di anni, di luoghi catturati nei solchi dei dischi e dei giorni. Milanese, nevrastenico come quella “J” del cognome, che ci fa lì addosso a un meneghino, ma poi si scopriva che veniva su dal sud, l'origine era pugliese, come gli altri folli del Derby e dintorni, Celentano, Teocoli, gente che nel dopoguerra aveva ridipinto Milano di demenziale poesia.

Pugliese di stirpe macedone il nonno, i balcanici son sempre venuti di qua italianizzando il nome. Un terrone, chi l'avrebbe detto, pareva tanto milanese. Forse per questo l'Enzo “cresciuto nella prospettiva periferica di Lambrate”, vedi un po', aveva sempre così dentro la gente del mare, che affogava in mare, ce l'aveva dentro come un seme di dolore, di passione, che cresceva pian piano. Eh sì, noi di Lambrate, che la notte dormivamo col latrare del megafono della stazione che chiamava i treni, siamo gente di nostalgia marina, ce lo vediamo lungo la via Porpora quel mare, lungo la tangenziale che da via Rombon poi ti ci porta, al mare.

Ed è per questo che il pianista “studiato” al Conservatorio, jazzista e improvvisatore, performer, paroliere, compositore e pigliaingiro allampanato, matto in scena, affidabile in camicie, non aveva mai smesso quell'umanità stralunata, fosse su un palco o in sala operatoria. Che gli basta un pugno di parole sparpagliate, cucite dal filo spinato ed esile di una fisarmonica ed eccolo lì il blues all'italiana fatto di case di ringhiera e di borgate, di ombrelli e fiori nel fango, di cardinali e disperati, di fabbriche spietate per chi ci lavorava e la finta pietà di chi ti scarica, “Se me lo dicevi prima”, “Ma io sto male adesso”. Dai, va bene anche l'armonica, una storia di parole deliranti e desolate ed eccolo lì quel blues bianco, italiano, milanese, di ringhiera, che fa star male, che mette l'angoscia peggio dei vortici dei filosofi, perché è più facile specchiarcisi, riconoscerla, cascarci dentro a quella malinconia da due soldi con attaccati sui cancelli certi cartelli di cartone, “Attenzione cane morsicoso”. Ma adesso non ci sono più neanche quelli, ci sono le piste ciclabili in Buenos Aires che ci vanno i monopattini elettrici, peccati che sei morto Enzo se no una canzone su questa roba qua non ce la levava nessuno. Con le parole farfugliate, “Io non sono un cantante, c'ho quella vociaccia lì”, surrealisticamente masticate dal vernacolo dei Navigli o di un altro dove di periferia, ma italiane. Parole sincopate che inzeppano versi che riempiono frasi che farciscono discorsi che gonfiano canzoni che non sono canzoni sono frammenti distonici lunatici di storie, pezzi di vita e alla vita – alla vita, non alle sue proiezioni, non alle sue elucubrazioni – va resa tutta la dignità della vita, e la dignità della vita è fatta di sconfitta, di sincerità, di verità nel dolore, in quell'angoscia che chiunque può riconoscere perché è anche la sua.

E così questo pianeta con gli occhiali cantava il blues dell'Ortica e di Lambrate, struggente e crudo, senza speranza, senza lieto fine, e metteva un brivido perché aveva il coraggio della poesia, di guardare in faccia la realtà e cantarla per quella che era. La realtà. Che non è fatta di gesti eroici e di cadute tragiche, ma di matti non capiti, di barboni che muoiono per una sigaretta, di derelitti che si vendono la radio, di donne che non capiscono e di vita che non si capisce. Solo vita, piena di vuoto, piena di poesia da buttare, piena di ingiustizia senza redenzione come può esserla quella di chi vuole andare allo zoo e non ce lo lasciano andare.

Jannacci e il jazz, i concerti con Stan Getz, Gerry Mulligan, Chet Baker e Franco Cerri, l'apprendistato con Bud Powell che gli insegna la tecnica della mano sinistra al piano, quella era una per davvero, distopica distonica fin che vuoi ma tutti ci passavano anche i malavitosi e i delinquenti quelli veri e lasciavano una scia, ribollente di occasioni, di rielaborazioni, il rock and roll alla milanese con Gaber, i due Corsari di fine anni '50, e ancora Ricky Gianco e in fila tutti gli altri e sono tanti in quella Milano là ad agitarsi sulle tavole dei teatri e i cabaret, e Jannacci che li filtra, li imbarca, li cresce, li lancia, li ispira, li tortura la notte, dopo lo spettacolo, a studiare sui libri di Medicina, a catturare nuove melodie, intercettare nuove parole, nuovi fili d'armonica, nessuno dome quando l'Enzo è sveglio, “Ho visto un re” e sprazzi di disperazione tirata via, beffarda, ma se uno cerca un'eredità da Jannacci gli viene in mente l'allegra rasoiata di “L'importante è esagerare”. In Italia esagerano tutti, sempre, comunque, quella canzone potrebbe, dovrebbe essere il nostro vero inno nazionale. Anche Jannacci esagerava. In follia: una volta sull'aereoplano tirò matta una hostess, che lui voleva un caffè fatto così e così e quella poverina andava e veniva e non ne usciva viva. Poi lui le fece una carezza, era tutto uno scherzo. Sai quelle persone lì che hanno paura del vuoto, che pensano anche troppo e allora debbono inventarsi sempre qualche mattana da raccontare se no succede il patatrac. Diceva il chirurgo dal cuore umano: “Ho visto guarire più gente per la compagnia di un gatto che per le medicine.

Nell'Italia degli esagerati e dei folli, capace di fare un motivetto terribile che per quasi tutto il tempo fa piripiripirì pirippippi piripiripirì... E ci ha pure successo, che i bambini ridono ma i grandi, se capiscono, gli viene da piangere. Perché poi non è solo quello che diceva, è che sapeva buttarci addosso una musica triste, ma così triste. E se n'è andato via un venerdì di passione, come in una della sue assurde storie in musica, portandosi dietro graffiti di una Milano che i giovani non sospettano e che sopravvive, quando sopravvive, nel rimpianto, la cartolina di un Duomo seppiato, treni addormentati su binari morti, ritratti deragliati di quella Milano agra, alla Bianciardi ma anche alla Jannacci, una domenica pomeriggio che il buio già l'inghiotte, finisce una partita squallida, la gente si vomita fuori da San Siro, s'inscatola nei tram, si prende a gomitate, si disperde nei rivoli delle vie, entra nei bar di luce sporca a farsi l'ultimo bicchiere della domenica pensando che domani è un altro infame lunedì di un'altra settimana di ringhiera e Milan sarà anche un gran Milan ma a quest'ora in bianco e nero, con le strade che si vuotano e la nebbia che le lucida, non pare proprio. Ma adesso vogliono buttar via anche San Siro coi suoi fantasmi, San Siro, ci pensi, che tu avevi lì il tuo posto personale, riservato, pentolone d'umanità che ti serviva poi a immaginare altri blues ed è come se vi uccidessero una seconda volta a tutti voi, ma come si fa a cancellare cent'anni d'emozione Enzo dimmelo tu se è possibile un crimine così.