Mario Brega, a Roma una targa per i suoi 100 anni
Caratterista, ma importante almeno quanto i protagonisti. Perché più che recitare, riviveva. Portandosi dentro una Roma che non era la grande bellezza ma il popolo nei suoi pregi e nei suoi difetti
Sempre quella violenza, abbasta, diceva il figlio fricchettone “Ruggiè” al padre che sventrava la batteria come nessun heavy metal al mondo. Perché un conto sono quelli che fanno i bruti posando, un altro chi “ce nasce” e Florestano Brega, in arte Mario, era della razza di chi ce nasce. Difficile da sopportare, conveniamone, ma se resta alla distanza ravvicinata dello schermo, allora tutto cambia. Allora i cento ruoli, prima truci, poi trucidi ma ridicoli, comici, in mano a Carlo Verdone che lo plasma o meglio lo trasferisce dalla realtà alla finzione pari pari. Ieri nel centenario una targa al quartiere Marconi, via Oderisi da Gubbio, 18, che er sor Brega ci abitò per decenni ma chissà poi se sapeva veramente chi fosse, tutti presenti, il sindaco Bella Ciao, Verdone ovviamente, i fan e i curiosi. Un uomo di un altro tempo e di un altro secolo ma non passa, vive nelle magliette, nei modi di dire: la mano che poesse fero e poesse piuma, le olive greche, e “gli ho dato un destro in bocca, gli ho spappolato er setto nasale, frantumato le mucose e je dicevo arzate a 'nfane arzate”. E lo aveva fatto pe' davero, non recitava, al massimo rievocava.
Amico sì, simpatico sì, ma a distanza. Tutta la romanità rinchiusa nel sor Brega, il meglio e il peggio, la generosità invadente e sempre quella violenza che uno respira sui monumenti, sui palazzi, quelle statue solenni e tormentate, quelle colonne istoriate e fontane eterne, la Roma dei grandi intrighi, delle crudeltà che attraversa i secoli, dei misteri e dei ministeri, la Roma che dal tram di Trastevere si riscopriva il verminaio intorno a Moro, al suo sacrificio. Città eterna davvero, capace di sopravvivere alla degradazione semplicemente accettandola, inglobandosi in essa e personaggio eterno, Mario, specie in via d'estinzione cui dedicano una targa per dire: ci sarà sempre però ci manca. Che può anche essere letto al contrario, non ce ne sono più come lui e per questo ce lo teniamo stretto col suo popolaresco bovino, romano, “ho chiesto un maglione per te alla commessa ma siccome sei grassa mi ha dato la taglia più larga che aveva e l'ho pagato il doppio, hai capito quanto ho speso”. I romani, di preferenza borghesi, cineasti, professori e loro discendenti, trovano delizioso questo abbandono nella plebe mai spartita ma che piace lambire, bazzicare, sapendo che poi c'è la villa di famiglia dove si torna a ripulirsi. Ma il Brega anche da vip era rimasto plebeo perché non poteva essere altro e in questo sta la sua distanza anche dagli attori e dai personaggi. Facile da frequentare? Non si direbbe, uno che ti porta una cassetta di primizie ma se non le accetti, se ti dimostri sorpreso, magari solo per l'imbarazzo, perché non ti aspetti un pensiero del genere, è pronto a incazzarsi, a menare le mani.
“Quella romanità che ci ha rotto un po' le palle” per dirla col funzionario Rai di un altro film verdoniano, “Perdiamoci di vista”, ma, siccome il capoccia Rai era di Milano, riesce ancora più odioso e insopportabile; alla fine è sempre la “grande bellezza”, sì, siamo come siamo, anche sconci, anche osceni ma ci piacciamo tanto così. C'è una sostanziale differenza tra lo snobismo capitolino e l'altro meneghino: che il primo è quasi esibito, nella sua infinita raffinatezza nobiliare, aristocratica o semplicemente da generone, non si nasconde – ci piacciamo così – e si trascina dietro retaggi atavici, contaminazioni inevitabili con la plebe; a Milano sono davvero più odiosi, e ve lo dice uno che ci è nato e cresciuto, e, soprattutto, non si piacciono perché vorrebbero essere ancora più stronzi e ancora più snob. Lo vedi con chiarezza agli eventi pubblici tipo presentazione libri: a Roma tutto un elogiarsi anche un po' sbracato tra i partecipanti col sigarone in bocca, per dire: anche se siamo da parti opposte della barricata, alla fine ci siamo dentro, siamo tra gli arrivati e questa è l'unica cosa che conta. A Mediolanum difficile sentire odor di sigari e dello stesso cameratismo nel successo, gli elogi sono di facciata o di scuderia e sempre un po' stitici, tirati, da gente che non si fida mai davvero. A Roma neanche si fidano, è chiaro, ma quell'aria un po' trash, che D'Agostino chiama “Roma godona” non manca mai, a Milano l'understatement per essere più distanti, meno inclusivi per non dire socialmente razzisti, col giusto orgoglio. A Roma governativa regna ancora il “chi conosci”, il ce n'è per tutti basta entrare in qualche giro, a Milano conoscere non basta e i giri non bastano, sono concentrici, escludenti e le sue vecchie sacerdotesse erano come la Camilla Cederna che firmava contro il commissario Calabresi, si faceva corteggiare dagli autonomi e di Enzo Tortora diceva: per me è colpevole, con quella faccia lì. E voleva dire: una faccia non da noi e se adesso questo snob che pretendeva di snobbare noi, i più snob di tutti, la paga, anche da innocente, ebbene è il segno che la giustizia sociale è stata ristabilita. C'è una profonda meschinità in tutto questo. “Cadde un soldino e perirono nella mischia” e un detto ottocentesco che non passa mai davvero; a Roma la mischia c'è ma c'è pure Alberto Sordi che fa il beau jeste, io non ci sto, fate schifo. Poi magari ci ripensa e torna indietro, ma almeno il gesto estetico. Anche Florestano Brega detto Mario era tutto un gesto, che sfasciasse una batteria o “due de passaggio”; e gli fanno la targa. Ma il suo momento forse più prezioso è quello che meno si ricorda, il duello da cafoni arricchiti con Guido Nicheli detto Dogui, il cumenda milanese, al porticciolo degli yacht: “Ohè, animale, agevola lo sbarco, che questo è il posto mio”. “Ah cafonauta, noi stamo qui dal 3 agosto”. “Ma quale 3 agosto, io è dal '52 che pascolo qui, ohè, mare nostrum”. “Ahò cambiate yogurt che il tuo è vecchio”. Tra ahò e ohè lo scontro di civiltà che non abbiamo vissuto, noi normali, noi plebe, ma continua a mancarci perché il secolo nuovo è peggio, solo scontri, niente civiltà.