Joe Cocker se ne andava 8 anni fa oggi: un simile campione dell'anima non nascerà più
Incredibile parabola, la sua: l'esplosione a Woodstock, nel '69, quindi il lungo autoannientamento fino alla resurrezione degli anni '80 e allo status definitivo di classico nel nuovo millennio.
Scegline una che conoscono in pochi. Sandspaper Cadillac. Si chiude lo stomaco. Così era nel 1969, così sarà per sempre. Nessuno può cantare una deriva come Joe Cocker, scomparso oggi otto anni fa. Niente Natale per lui, il carcinoma che da tempo lo divorava arrivò tre giorni prima. Joe, così rovinato, così vecchietto a 70 anni, metteva tenerezza fino a che non apriva bocca, per cantare. Allora ti chiudeva lo stomaco il nonnetto che conosceva la follia, l'unico a poter rendere una cover, qualsiasi cover, meglio dell'originale. Anche di Elton John. Anche dei Beatles. I can't stand a little rain..., impossibile non perdersi in quel rantolo triste, non vedere la pioggerella che veniva giù e bruciava lo stomaco, l'anima, faceva tanto male, ti faceva sentire l'uomo più solo e più disperato sulla dannata faccia della terra, circondato dai tetti della notte. Oh, così diverso dal ruggito di pazzia con cui nasceva al mondo, a Woodstock, nel '69, in quell'accolita di insani dove Joe fu per cinque minuti il più estremo di tutti: bastarono a consacrarlo per sempre. With a little help from my friend, e il rock non fu più lo stesso, era arrivato quell'inglese di Sheffield che sembrava un pazzo, e lo era, un posseduto dal blues senza redenzione.
A Woodstock, Joe aveva già 25 anni ed era in giro da un bel pezzo: aspettava solo la sua occasione fin da quando, un decennio prima, era partito coi soliti complessini alla riscoperta della musica del padri; fu spiazzato dalla British Invasion, che sempre dalle radici partiva, però stravolgendole: lui, interprete sensibile, non era un rocker, non era un vocalist, non aveva un gruppo: avrebbe rimediato di conseguenza, registrando con Jimmy Page, marchiando a lacrime di fuoco la kermesse che concludeva l'equivoca stagione della “pace e amore”. Joe salì sul palco alle due di pomeriggio dell'ultimo giorno, il 18 agosto. Cantò così forte, con così tanta anima che il cielo si commosse: venne giù un temporale biblico.
Quindi il ragazzo di Sheffield venne sparato nell'empireo, dove presto, succede, succede sempre, a tutte le bestie selvagge del rock, si smarrì. Il primo arresto era addirittura precedente, 1968, detenzione di marijuana, per la quale si assunse la responsabilità la sua ragazza, Eileen Webster. A seguire, una cascata di accidenti, lui sempre più fuori controllo, depresso e selvaggio, fino a ritrovare la prigione, nel 1972, in Australia, da dove gli fu ordinato di andarsene insieme alla band: per tutta risposta, Joe tenne un ultimo concerto, ed era così fatto e così bevuto che stramazzò in terra in piena performance. Spettatori esterrefatti, autorità imbufalite, fu cacciato anche dall'albergo, a Melbourne e non smise più di essere persona non grata in Australia. Altri guai nella natia Sheffield, l'anno dopo, e ancora e ancora casini, disastri, fino ad nuova espulsione dagli Stati Uniti nel 1977, dov'era entrato illegamente: a quel tempo le autorità non scherzavano e Joe Cocker ancora meno di loro: senza più niente da perdere né da vincere, cercava di farla finita a modo suo, interminabili anni a sprofondare lentamente nelle sabbie mobili delle droghe, dell'alcool di infima qualità, lui decrepito, corroso a 30 anni, dimostrando un'età indefinibile, da barbone,, inseguito da penali miliardarie al fisco: che fare se non spalancare filosoficamente le braccia e buttarsi sull'ennesima bottiglia?
Quando nessuno ci credeva più, quando Joe Cocker era ormai il sibilo vago di una meteora passata, egli ritornò. Spiegandosi a modo suo: “Era ora di riprendermi tutto, sapete”. Lo fece. Semplicemente rimettendosi a cantare. Aveva ancora in gola un capitale, si trattava solo di farlo fruttare. La voce adesso meno arrembante, infinitamente segnata dalla sofferenza: ancora più vera, più disperatamente sincera che mai. I decadenti, futuribili anni Ottanta furono, incredibilmente, lo sfondo per la risalita di questo reperto archelogico, questo assurdo campione dell'anima, a partire da quello che resta forse il suo disco più riuscito, Sheffield Steel, trionfo di blues bianco, di soul e di reggae, di cover delle sue, di meraviglie imperdibili. Da lì, gli exploit senza tempo, Up Where We Belong (che neppure doveva essere inclusa nel film Ufficiale e gentiluomo: “Non avrà mai successo, disse il lungimirante produttore Don Simpson. Infatti non ebbe successo: fu l'apoteosi); a seguire, un'altra colonna d'Ercole delle colonne sonore, il remake di You can leave your hat on, resa pop per esigenze di cassetta del film 9 settimane e mezzo. Joe non si fermò più. Continuava a bere in modo mostruoso, perché un uomo d'acciaio temperato di Sheffield fa così, chi scrive lo vide risucchiare una ventina di doppie lattine di birra in un solo concerto, la pancia sempre più gonfia ad ogni canzone, sembrava sul punto di scoppiare. Ma ormai Joe sapeva come gestirsi, e ciò che avrebbe ucciso un essere umano normale a lui provocava al massimo una sbronza relativamente leggera. Altri dischi, altri successi, anche roba andante, prescindibile ma ogni album conteneva almeno una zampata, una perla, qualcosa che solo Joe poteva fare. You are so beautiful... Chi altri potrebbe sussurrarlo in quel modo?
Gli anni Duemila sono il suo canto del cigno all'insegna del progressivo ritorno al soul, al rhythm and blues e al blues con pochi fronzoli: sparito il successo dei radiosi '80, ma a quel punto il vecchio leone voleva solo manteenersi nel suo status di interprete di assoluta magnificenza. L'ultimo disco è un live, il bellissimo Fire It Up del 2013, che seguiva l'omonimo album in studio dell'anno prima. Ha cantato fino a quando ha avuto una stilla di forza, l'ultimo concerto in giugno, ed era già molto molto malato. Nei tanti classici, riproposti con la solita grinta, c'è ancora, intaonsa, l'intensità di un selvaggio nato per cantare, che poteva commuovere anche Iddio, che straziava di poesia quando c'era, e strazia di malinconia oggi che canto nel vento. Perché, questo è sicuro, un altro come Joe Cocker, che sapeva trasformare in lacrime una piccola pioggerellina, non potrà nascere mai più.