L’equazione della crudeltà di Marc Hauser: intorno a "Evilicious, alle radici dell'odio e della crudeltà"

“Perché proprio noi, fra tutti gli animali, sviluppiamo una tendenza alla crudeltà gratuita? Questo è il nocciolo del problema del male"

"Evilicious : alle radici dell'odio e della crudeltà" di Marc D. Hauser, pubblicato dalla Mondadori università nel 2020 per la collana Scienza e filosofia, indaga aspetti sostanziali dell'essere e dell'agire umano i quali, in questa drammatica congiuntura storica, ci paiono quanto mai suscettibili di riflessione. Armando Massarenti, giornalista e filosofo, nonché direttore della collana sopracitata, ripropone su Il Giornale d'Italia la prefazione del volume. 

Marc D. Hauser, "Evilicious : alle radici dell'odio e della crudeltà"

Il titolo di questo libro, Evilicious, è un gioco di parole la cui efficacia non si presta ad essere resa in italiano. Vi risuonano chiaramente il male (evil) e il vizio (vicious) - che come il suo contrario, la virtù, si esprime in abitudini reiterate  e costanti - oggetti diretti della trattazione di Marc Hauser, ma vi si può sentire anche il suono della parola evolution, perché è  appunto l’evoluzione la vera chiave universale adottata dall’autore per affrontare, in maniera alquanto inedita e sorprendente, ogni sfumatura del male e della crudeltà in quanto tratti distintivi della specie umana.

Hauser, prima di Evilicious, è innanzitutto  l’autore, nel 2007,  di Moral minds il cui sottotitolo suona assai eloquente: How nature designed our universal sense of right and wrong (come la natura ha configurato il nostro senso universale su ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato). Un libro, Menti morali, che è stato salutato da studiosi come Noam Chomsky, Peter Singer, Antonio Damasio, Steven Pinker e dal premio Nobel per l’economia Daniel Kahneman - cioè dalle migliori espressioni di campi come linguistica, filosofia morale, neuroscienze e psicologia cognitiva - come il resoconto più profondo ed empiricamente documentato sulla natura del nostro «organo morale». Hauser, come ha fatto Chomsky per un altro tratto tipicamente umano come la competenza linguistica, parla di un nostro «senso universale» di ciò che è giusto e sbagliato in senso morale, qualcosa di profondamente legato alla nostra conformazione biologica e alla nostra storia evolutiva, che è universale nel senso preciso che non produce giudizi legati a specificità culturali. All'Università di Harvard, negli anni precedenti al libro, Hauser costruì un «Test del senso morale» tuttora accessibile online in inglese, spagnolo e cinese (all'indirizzo http://moral.wjh.harvard.edu) che gli permise di analizzare decine di migliaia di risposte giunte da ogni parte del mondo riscontrando risultati coerenti, che prescindono dalle differenze di nazionalità, di etnia, di religione, di età e di sesso.

Di fronte ai casi morali proposti nel test - tra cui il famoso dilemma del treno di cui diremo più avanti - le risposte sono quasi sempre piuttosto veloci e immediate. Le persone sanno giudicare a colpo sicuro se una certa decisione è giusta o sbagliata. Tutti disponiamo dunque di una sorta di competenza morale innata che ricorda la competenza linguistica chomskiana attraverso la quale sappiamo dire senza riflettere troppo se nella nostra lingua una frase è ben formata o se ha qualcosa che non va. Ci risulta invece difficile spiegare in maniera razionale il perché di questi nostri giudizi istintivi. Il che significa che anche sul piano morale siamo dotati di un intuito naturale che determina le nostre scelte in maniera per lo più inconscia e attraverso meccanismi di cui non siamo consapevoli. Ma di che natura sono questi giudizi intuitivi? Ci conducono sempre verso le scelte più giuste e più razionali? Sarebbe bello poter rispondere positivamente concludendone che, come specie, per dirla con l’etologo Frans de Waal, siamo “naturalmente buoni”, e che il male, di cui certo non possiamo negare l’esistenza, non è  intrinseco alla nostra natura ma semmai frutto di menti perverse e malate. Se fosse così non ci sarebbe motivo di leggere un libro come Evilicious, che peraltro si aggiunge a una sterminata e plurisecolare bibliografia sul tema del male. 

Per quanto ci possiamo sentire, come specie,  orgogliosamente dotati di una straordinaria sensibilità morale, e per quanto essa stessa ci caratterizzi come esseri umani, dobbiamo fare i conti con la verità di un’affermazione già  enunciata con disarmante semplicità da Marc Twain all’inizio del secolo scorso: «L’uomo è l’animale crudele. È il solo ad avere questo onore». Di più: per vie complesse, che questo libro cerca di spiegare con ipotesi esposte con la massima chiarezza, il male e la crudeltà, anche o forse soprattutto nelle loro forme più cruente, sono strettamente legati alla necessità di perseguire il bene e la giustizia.  È certamente vero che - come ha sostenuto Adrian Raine, autore di Anatomia della violenza, pubblicato in questa stessa collana - i crimini violenti sono paragonabili a una forma di cancro, in quanto anch’essi frutto di una combinazione di geni e fattori ambientali, e dunque riguardano individui malati. Ed è altrettanto vero che vi sono individui cui sembra mancare del tutto il senso morale e la percezione del danno e delle immani sofferenze che procurano ad altri.  Ma in realtà i meccanismi del male, della violenza e della crudeltà riguardano da vicino anche persone che non sono affette da alcuna patologia mentale. Il male, in molte delle sue forme, scaturisce da meccanismi che tutti noi possiamo riconoscere anche in noi stessi. Uno  dei molti meriti dell’analisi di Hauser è che rifugge dal mito del male puro e assoluto, compiuto da individui mostruosi del tutto estranei alla morale comune. Sarebbe tutto molto più semplice se il male non fosse intrinsecamente legato ai nostri stessi desideri e ai nostri progetti di vita, individuali e collettivi, e soprattutto alla necessità umana troppo umana, e spesso del tutto giustificata, di perseguire il bene, ottenere giustizia o riparare a un torto. Senza arrivare alle affermazioni estreme di chi (commentando il comportamento del generale della guerra civile americana Robert Lee) ha sostenuto che «sono sempre gli uomini buoni a fare i danni peggiori», potremmo sottoscrivere Steven Pinker quando in maniera più equilibrata e in una saggia chiave antimoralistica, scrive che «il mondo ha fin troppa moralità. Se si mettessero insieme tutti gli omicidi commessi alla ricerca di una giustizia fai-da-te, i morti delle guerre rivoluzionarie e di religione, le persone giustiziate per crimini senza vittime e i bersagli dei genocidi ideologici, sicuramente supererebbero le vittime causate da predazioni e conquiste amorali».

Ci troviamo di fronte a una situazione abbastanza paradossale: pur ammettendo che nel mondo c’è fin troppa moralità, dobbiamo affermare con forza che il senso morale resta comunque  uno dei nostri beni più preziosi. A patto di saperne gestire gli aspetti più dilemmatici, rispetto ai quali il nostro istinto da solo non ci aiuta se non è accompagnato da solide argomentazioni razionali o da strategie che ci difendano dalle nostre trappole mentali e dai tratti più contraddittori della nostra complessa natura.

Uno dei test che Hauser propose nel suo esperimento globale era il famoso dilemma, escogitato dalla filosofa inglese Philippa Foot nell’immediato dopoguerra, che riguarda il problema della scelta del «male minore».  

Immagina di trovarti accanto a un binario a scartamento ridotto e di vedere un treno in corsa che sfreccia verso di te. I freni non hanno funzionato e tu lo capisci al volo. Più avanti ci sono cinque persone legate sui binari che saranno travolte e uccise. Però puoi fare qualcosa: per fortuna accanto a te c’è uno scambio e azionando la leva il treno finirà su una linea secondaria, un ramo deviato, che si trova davanti a te. Sul ramo deviato però c'e una persona legata sui binari, che verrebbe travolta e uccisa. Che cosa faresti? Beh, è probabile che azioneresti la leva, come la maggior parte delle persone cui viene proposto il dilemma. Meglio una sola vittima piuttosto che cinque!

Ora però pensa a quest’altro dilemma, che è una semplice variante del precedente. 

Di nuovo ti trovi  di fronte a un treno che sta per uccidere cinque persone. Questa volta, però, non ti trovi accanto al binario, ma su un ponte pedonale che scavalca la ferrovia. Non puoi arrivare in tempo ad attivare la leva dello scambio. Potresti saltare dal ponte gettandoti davanti al carrello, sacrificando la tua vita per salvare le cinque persone in pericolo, ma ti rendi conto che il tuo peso non basterebbe a fermare il carrello. Vicino a te, però, c'è uno sconosciuto. È molto più corpulento di te. La sua mole sarebbe perfetta per bloccare il treno. Il solo modo per impedire che il treno uccida le cinque persone è spingerlo giù dal ponte, facendolo finire davanti al vagone. Se lo farai, l’«uomo grasso» - come più espressivamente viene spesso chiamato - rimarrà ucciso, ma gli altri cinque si salveranno. 

Ebbene, alla domanda su cosa farebbero se si trovassero in queste circostanze, quasi tutte le persone rispondono che spingere di sotto l’uomo grasso sarebbe sbagliato. Il nostro istinto morale dunque, nelle due varianti del dilemma, ci ha portato a conclusioni opposte. Eppure il problema è sempre lo stesso: meglio salvare cinque persone o una sola?

All’origine di analisi come quelle contenute in Menti moralie in Evilicious vi è dunque l’esigenza di analizzare con maggiore profondità il funzionamento delle intuizioni e delle emozioni che stanno alla base del nostro senso morale. Per far questo gli studi sul cervello si sono rivelati assai illuminanti. Si è adottata la risonanza magnetico funzionale per comprendere quali aree del cervello si attivano quando prendiamo decisioni morali. Così ad esempio Joshua Greene ha scoperto che la minoranza dei soggetti intervistati che aveva giudicato corretto uccidere  lo sconosciuto gettandolo giù dal ponte avevano impiegato più tempo per prendere una decisione di quelli che avevano giudicato quest'azione sbagliata. Il che significa che non si sono affidati interamente alle emozioni ma hanno esercitato una maggiore attività riflessiva. 

Riguardo invece al confronto tra le due versioni del dilemma, emerge chiaramente la differenza tra situazioni in cui si è direttamente e fisicamente coinvolti in un’azione e situazioni che comportano effetti indiretti. Nel primo caso, una violazione personale come quella di spingere l’uomo grasso giù dal ponte evidenzia un'attività intensa nell'area del cervello associata alle emozioni, che non si registra quando gli individui sono di fronte a violazioni indirette e "impersonali", come attivare la leva dello scambio ferroviario, un tipo di azione che ci rende meno sensibili al danno che stiamo arrecando a qualcuno, sia nel caso del male minore del nostro dilemma sia nei casi in cui il male è portato all’estremo e magari non ha attenuanti o giustificazioni morali (si pensi ad esempio all’indifferenza con cui assistiamo, a partire dalle guerre del Golfo, alle scene di bombardamenti trasmesse dai tg).  

Una  lunga storia evolutiva in cui gli esseri umani e i loro antenati primati sono vissuti in tribù o piccoli gruppi in cui la violenza si manifestava in maniera assai fisica e diretta non è modificata dall’apparizione, assai più recente, di situazioni in cui domina invece la suddetta impersonalità. Un tema questo che trova un’ampia estensione nella trattazione che in Evilicious si concentra sulle diverse forme di disumanizzazione delle vittime dei crimini più efferati, da cui deriva la completa autoderesponsabilizzazione dei carnefici, contrapposta a quelle situazioni in cui la vicinanza e l’empatia possono mitigare gli effetti della violenza. Chi compie atti di crudeltà tende ad autoassolversi dalle sue responsabilità morali perché le sue vittime sono state private del loro statuto di esseri umani e ridotte ad animali o a cose. Hauser conosce bene la complessità del tema. La sua analisi  è profonda, aggiornata, dettagliata. «La compassione per un’altra persona, anche se questa ha credenze e desideri differenti», scrive Hauser, «è uno dei caratteri distintivi della nostra specie». Ma egli è altresì consapevole del fatto che l’assenza di empatia non è di per sé sufficiente a spiegare la crudeltà né nei casi patologici - come in quelli, qui ampiamente trattati, della psicopatia e dell’autismo -  né nei casi normali. In ciò non è molto distante da quanto sostenuto da Paul Bloom nel suo pamphlet Contro l’empatia. Una difesa della razionalità (liberilibri, Macerata, 2019).  «Quando i leader serbi organizzarono il genocidio, - scrive ad esempio Hauser - avevano intenzione di infliggere a croati e musulmani il più grande terrore possibile, sapendo bene cosa significhi assistere allo stupro delle proprie mogli e a brutalità sui propri bambini. Ma chi ha fatto queste cose non è al livello zero della scala dell’empatia. Sono empatici ma hanno deciso di esserlo in maniera selettiva. Sono empatici ma hanno scelto il disinteresse in certe situazioni». Disumanizzazione, crudeltà e empatia sembrano essere tutte presenti nella medesima orribile scena. Per questo l’empatia, direbbe Bloom, non è una sicura e infallibile guida morale. Talvolta costituisce esse stessa una forte motivazione alla violenza. Ci spinge sì alla compassione e all’altruismo, ma presenta modalità che nel contempo la trasformano in uno degli ingredienti che contribuiscono a definire, con Mark Twain, l’uomo come l’unico animale crudele del regno animale. Ciò secondo Hauser è «una conseguenza accidentale del modo unico in cui il nostro cervello è strutturato. A differenza degli altri animali, il nostro cervello combina e ricombina in maniera molto libera i pensieri e le emozioni per creare un repertorio di soluzioni adattive potenzialmente illimitato e adatto ai vari tipi di ambiente in cui la nostra specie si trova a vivere». 

Ne è un esempio la combinazione tra desiderio e diniego, che per Hauser costituisce la vera formula per definire la crudeltà tipicamente umana. Si ha crudeltà, in altre parole, quando una forma smisurata di desiderio si unisce a una propensione a negare alcuni aspetti rilevanti della realtà. È questo «mix che fa sì che solo noi possiamo uccidere infanti e adulti, amici e nemici, amanti e rivali, famigliari ed estranei, con una vastità e un livello di malizia che non ha precedenti nella storia della vita sulla terra».

Gli eccessi nelle manifestazioni della violenza si spiegano con il processo che sta alla base delle dipendenze, si tratti di cibo, droga, alcol, gioco d’azzardo.  I sistemi si guastano per eccesso perché a un certo punto il desiderio di quelle sostanze o di quei comportamenti reiterati risulta del tutto scollegato dal meccanismo della ricompensa.  Vorrò  sempre più cibo o più droga - e anche più violenza - ma al momento dell’assunzione non sarò mai soddisfatto in maniera proporzionata alla forza del desiderio che mi ha spinto fin lì. «Alla stessa stregua dell’eccesso di cibo, che diventa incontrollabile quando il sistema della dopamina induce a volere sempre più cibo che però viene gradito sempre meno, così anche il comportamento dannoso emerge quando la volizione e il gradimento prendono strade differenti». «Il gradimento non è più un fattore dell’equazione, ma lo è la volizione. Il risultato è che i desideri insoddisfatti rendono ciechi gli individui sui danni da loro commessi».  

Un esempio illuminante è quello della violenza sulle donne da parte dei loro partner. 

«Quando esplode la violenza domestica, questa, come la dipendenza da droga o alcol, è caratterizzata da perdita di autocontrollo, coazione a ripetere azioni dalle conseguenze dannose, pensieri ossessivi, negazione del problema, desensibilizzazione e dal fatto che la violenza non riesce più a soddisfare il desiderio di infliggere dolore. Raramente la violenza domestica è un fatto occasionale. La violenza domestica aumenta a causa del desiderio insoddisfatto di controllare il partner. Ma come il consumo di alcol, anche la violenza non riesce a soddisfare il desiderio perché la volizione e il gradimento si sono scissi. La violenza diventa una dipendenza. I maniaci sessuali omicidi, i bambini-soldato, i terroristi suicidi, i maltrattatori in un rapporto di coppia sbagliato, passano facilmente da desideri violenti ad azioni violente. Per tutti, far male agli altri crea dipendenza. 

Per tutti, la dipendenza si appoggia su una psicologia del diniego. I maniaci sessuali omicidi rinfocolano la loro brama di violenza pensando che le loro vittime siano oggetti, i bambini-soldato lo fanno con l’autoinganno, i terroristi suicidi con la fede in una giusta causa, e chi maltratta le donne convincendosi falsamente di doverle controllare. Reificazione, autoinganno e giustificazioni ideologiche sono forme di diniego che allentano la presa del nostro senso morale e aiutano a completare la ricetta del male».

Un altro caso emblematico è quello del modo in cui gli esseri umani coltivano il desiderio di vendetta rispetto a un torto subito. 

Due esempi non presenti in questo libro suffragano le tesi di Hauser trattate fin qui. Il primo è riportato da Paul Bloom, nel capitolo su «Violenza e crudeltà» di Contro l’empatia. Vi si racconta un terribile episodio della seconda guerra mondiale. Nell’aprile del 1945, dal campo di concentramento di Dachau, il capitano David Wisley scriveva  alla moglie una lettera nella quale raccontava di come molti uomini vennero allineati contro il muro, torturati e uccisi. Il pensiero naturalmente va subito alle decine di migliaia di prigionieri che in quel luogo erano stati ridotti alla fame, asfissiati nelle camere a gas, torturati e usati per assurdi esperimenti medici. Ma l’episodio raccontato dal capitano non riguardava i prigionieri del campo di concentramento, che era già stato liberato. Riguardava invece i soldati tedeschi fatti prigionieri dagli americani. «Ho visto delle SS fatte prigioniere, torturate contro un muro e poi assassinate a sangue freddo - scrive alla moglie il capitano - ma Emily! Dio mi perdoni se dico  che l’ho visto fare senza  il minimo fastidio perché se la sono cercata dopo quello che avevo appena visto e che ho continuato a vedere delle azioni bestiali fatte dalle SS».  

In un altro suo scritto si legge:  «Ho “confessato” quanto passivamente la mia gavetta sia stata utilizzata per versare l’acqua ghiacciata del fiume lungo le schiene mezze nude delle SS mentre stavano per ore con entrambe le braccia tese nel saluto nazista prima di essere uccisi a sangue freddo? Un ingegnere della California (che non avevo mai visto prima) veramente assetato di sangue mi ha chiesto di prestargli la mia gavetta per fare i suoi “preliminari” su alcune SS prima di scaricare in faccia a tre di loro la sua 45 automatica. Era assetato di sangue e niente avrebbe mai potuto “saziare” quel ragazzo per la morte di suo fratello avvenuta per mano delle SS».

Il secondo episodio è quello raccontato da George Orwell, che nel 1945 visitò come corrispondente un campo di prigionia per criminali di guerra.  

Orwell vide sferrare un terribile calcio a un detenuto proprio su un piede fratturato e  reso deforme dal gonfiore. «Quasi sicuramente era stato al comando di un campo di concentramento e aveva ordinato torture e impiccagioni. In poche parole, egli rappresentava tutto ciò contro cui avevamo combattuto negli ultimi cinque anni....

È assurdo rimproverare un ebreo  tedesco o austriaco perché si vendica sui nazisti e le sofferenze subite. Sa il cielo tutte le cose di cui quest’uomo avrebbe voluto vendicarsi; con ogni probabilità l’intera sua famiglia era stata sterminata. In fondo, anche un violento calcio dato con freddezza a un prigioniero è cosa insignificante, paragonata alle atrocità commesse dal regime hitleriano. Tuttavia, questa scena e molte altre cui ho assistito in Germania mi hanno ripetutamente reso evidente che l’intero concetto di ritorsione e castigo è un infantile vagheggiamento. A rigor di termini, non esiste affatto qualcosa come la ritorsione o la vendetta. La vendetta è un’azione che si vorrebbe compiere quando e proprio perché si è impotenti: non appena questo sentimento di impotenza scompare, svanisce anche il desiderio di vendicarsi. 

Chi, nel 1940, non avrebbe fatto salti di gioia all’idea di vedere gli ufficiali delle SS presi a calci e umiliati? Eppure appena diviene possibile ciò appare soltanto patetico e ripugnante».

È uno scritto giustamente famoso. Si intitola «La vendetta è amara». 

Orwell non si sente di biasimare il giovane ebreo. Si chiede però se egli «godesse davvero» nell'esercitare il suo nuovo potere, e conclude che non si trattava di un vero piacere: «Come un uomo in un bordello, un ragazzino che fuma il primo sigaro, un turista che si aggira in una pinacoteca», osserva l'autore di 1984, «stava soltanto convincendosi che si divertiva, e si comportava come aveva immaginato di poter fare nei giorni dell'impotenza».

La moralità richiede lucidità e autocontrollo, e la capacità di controllare i desideri si fonda sulla moralità, conclude Hauser al termine del suo viaggio nelle perfidie della mente umana e nelle crudeltà che ne conseguono.  Il male è inestirpabile e l’umanità è un legno storto da cui non è mai stata cavata una cosa dritta, per dirla con Kant e Isaiah Berlin.  

Lucidità e autocontrollo è tutto ciò che possono offrirci i migliori scienziati morali dei nostri giorni. Nessuna ricetta per salvare l’umanità. Ma non è una cosa da poco.