Mind uploading, i dubbi di un Nuovo Umanista
“Persino un dettaglio, come l’insonnia, è stato essenziale perché il mondo conoscesse Kafka”. Conservando il cervello di Kafka e impiantandolo in un donatario, riavremmo tra di noi Kafka?
Il mind uploading (in lingua inglese letteralmente "caricamento della mente") o emulazione del cervello è l'ipotetico processo della copia di una mente cosciente da un cervello umano a un substrato biologico o non biologico (c.d. donatario). Il processo prevede la scansione e la mappatura dettagliata del cervello umano e la copia nel donatario, che grazie a questo processo acquisirebbe una mente emulata.
L'emulazione del cervello viene considerata dai futurologi come il punto logico finale nei campi della neuroscienza computazionale e della neuroinformatica.
Secondo i futurologi e per i movimenti transumanisti, il mind uploading è una tecnologia che rappresenta un'importante possibilità di estensione della vita.
In una pagina dei suoi diari, Franz Kafka scrisse: “Ho già pensato più volte che il mio modo migliore di vita sarebbe quello di stare con l'occorrente per scrivere e una lampada nel locale più interno di una cantina vasta e chiusa. Mi si porterebbe il cibo, lo si poserebbe sempre lontano dal mio locale dietro la più lontana porta della cantina. La strada per andare a prendere il pasto in veste da camera, passando sotto le volte della cantina, sarebbe la mia unica passeggiata. Poi ritornerei alla mia scrivania, mangerei lento e misurato e riprenderei subito a scrivere. Chissà quali cose scriverei! Da quali profondità le tirerei fuori!”.
Persino un dettaglio, come l’insonnia, è stato essenziale perché il mondo conoscesse Kafka. Come ha scritto Pietro Citati: “In quelle poche ore tra le dieci di sera e le sei del mattino, Kafka stabilì per sempre la sua concezione della letteratura; e la sua idea dell'ispirazione poetica. Era sicuro che da qualche parte c'era un «potere supremo», che si serviva della sua mano. Non importava chi fosse: se un dio sconosciuto, o il diavolo, o i demoni, o semplicemente il mare di tenebra che portava dentro di sé, e che egli avvertiva come una forza supremamente oggettiva. Egli doveva obbedirgli: seguire i suoi cenni: aprirsi alla sua parola; e trasformare la propria vita, la propria mente e il proprio corpo in uno strumento “chiaramente elaborato” per secernere letteratura, come avevano fatto i grandi scrittori che ammirava. Quale lavoro tremendo! Quale fatica continua, piena di dubbi e di attese! Non gli bastava obbedire: doveva distruggere molte cose dentro di sé e fuori di sé; e con atroce ascetismo, con paurosa avarizia, risparmiare e economizzare in tutto ciò che riguardava la sua esistenza.(…) Era una specie di alchimia: abolire la vita dentro di sé, e trasformarla in quella sostanza pura, traslucida, assente, vuota, che si chiama letteratura.”
Conservando il cervello di Kafka e impiantandolo in un androide – o al limite anche in un altro uomo, un transumano – riavremmo tra di noi Kafka? Kafka, o Pessoa, con i suoi eteronimi, o Leopardi, con la sua sovrumana erudizione e il suo corpo deforme, non furono forse quello che è ogni uomo, il risultato di una complessa equazione i cui membri sono il corpo, la mente, il suo tempo e il suo ambiente sociale? Perché dovremmo conservare in eterno la mente di tizio – che era un cretino – quando ciò che ce lo rendeva simpatico era il suo buffo aspetto?
La diversità, che fa sì che ogni uomo (ma non soltanto) sia diverso da tutti gli altri, non è la regola aurea, il più straordinario miracolo della natura?
Davvero tutte le teorie psicoanalitiche non sono di nessuna utilità? Eppure, la fondatezza di alcuni principi fondamentali non può essere posta in discussione. Per Alfred Adler: “L'uomo è una unità mente/corpo indivisibile”. Non occorre certo essere uno psicologo per capirlo. Essere uno psicologo però aiuta a comprendere esattamente l’importanza dell’educazione (chi educherà gli androidi?), del tempo dedicato dalla madre (e dal padre) per lo sviluppo di un essere umano equilibrato e felice (è la madre a trasmettere la gioia di vivere!). Sì, la felicità, eterna chimera, dovrebbe essere sempre al centro delle nostre riflessioni. Due millenni di cristianesimo (che, come noto, non considera la felicità terrena un obiettivo da raggiungere), ci hanno completamente distolto dalla ricerca della felicità. Le grandi religioni monoteiste ci insegnano che la sofferenza terrena verrà ricompensata, io non lo credo. Non credo in un Dio che crea o tollera tutto il dolore gratuito che le sue creature patiscono. E non posso essere ebreo, perché non credo che Dio faccia distinzioni tra eletti e non eletti, non posso essere musulmano, perché non credo che Dio santifichi qualcosa di mostruoso come la guerra e non posso essere cristiano, perché non credo in un Dio che predica l’amore e poi castiga con l’inferno i suoi stessi figli. Io sono quello che sono: un umile agnostico trafitto dalla poesia, dalla sublime bellezza di un raggio di sole.
Per favore, non rubate i contenuti del mio cervello per impiantarli in un altro uomo o in un androide. Io voglio vivere e morire, anima e corpo, da uomo unico, diverso da tutti gli altri, non replicabile. Forse in questo sta il mio valore, il valore di ciascuno di noi. Chiamatela pure - se nonostante tutte le contraddizioni delle religioni siete credenti (io v’invidio) - la sacralità della vita umana.
Di Alfredo Tocchi