Il valore della meritocrazia, atenei italiani incapaci di autocritica
Ormai neanche gli scandali di nepotismo antimeritocratico in molti nostri atenei e la "fuga dei cervelli" fanno più notizia e questo disinteresse della opinione pubblica rafforza la totale mancanza di autocritica da parte degli atenei italiani e dei loro docenti quando sono confrontati con questa debacle
Mentre l’Italia conquista la coppa europea di calcio e i nostri atleti collezionano medaglie d’oro alle olimpiadi, gli atenei italiani si confermano privi di medaglie e vittorie nella annuale classifica dei migliori atenei del mondo. Ma, mentre i tifosi italiani criticano squadre e allenatori quando le loro performance non sono soddisfacenti il grande pubblico del nostro Paese è totalmente disinteressato alla debacle pluridecennale dei nostri atenei. Così anche quest’anno, dopo un trafiletto che la commenta brevemente su un quotidiano, viene subito dimenticata nell’attesa di rileggerla il prossimo anno.
Ormai neanche gli scandali di nepotismo antimeritocratico in molti nostri atenei e la “fuga dei cervelli“ fanno più notizia e questo disinteresse della opinione pubblica rafforza la totale mancanza di autocritica da parte degli atenei italiani e dei loro docenti quando sono confrontati con questa debacle. Nessuna categoria socio economica ha rifiutato le idee contenute nel mio ultimo saggio “Aristocrazia 2.0, la nuova elite per salvare il Paese“ con più veemenza dei docenti universitari italiani che sono divenuti negli anni il nemico numero uno dichiarato della meritocrazia nel nostro paese.
Nel saggio racconto quanto, grazie alla economia della conoscenza esplosa nel nuovo secolo, i migliori atenei del mondo hanno accelerato il loro ruolo di motori della economia oltre a quello tradizionale di diffusori e formatori di cultura: i loro laureati creano aziende che producono milioni di posti di lavoro ben retribuiti e ricchezza per il loro paese. Per questo nel nuovo secolo sono diventate così importanti le “classifiche“ che premiano i migliori atenei del mondo , quelli che vincono la competizione globale per i migliori talenti , docenti , ricercatori e studenti e che non sono solo università di sola didattica ( teaching universities ) ma anche di ricerca ( research universities).
La prima delle critiche di molti docenti antimeritocrazia rifiuta proprio la nuova crucialità dell’ eccellenza che sta dietro a queste classifiche . “ 41 atenei italiani tra i primi 1300 nelle classifiche mondiali !” così si sono autocelebrati , ridimensionando la gravità del fatto che la migliore università italiana , il Politecnico di Milano “ e’ la numero 150 del mondo in queste classifiche . Ha 40 mila studenti , il doppio degli studenti dell’ ETH di Zurigo ( numero 6 ) e delI’ Imperial College ( numero 9) , ma ha avuto un solo premio Nobel ( 50 anni fa ) vs 27 dell’ETH e 20 del IC.E’ una ottima teaching university , ma una mediocre research university.
La priorità di gran parte delle università italiane non è l’eccellenza della ricerca ma quella di laureare il più alto numero di studenti ( anche perché sono finanziate in base al loro numero ).Obbiettivo che realizzano anche con un buon livello di qualità media della didattica testimoniato dal fatto che la maggioranza dei laureati trova lavoro in Italia e all’estero . Se siamo il fanalino di coda come numero di laureati e i pochi che si laureano e lavorano in Italia sono sottopagati non è colpa loro , ma del “ piccolo è bello “ che ha fatto si che, come ho raccontato nel saggio ,in Italia abbiamo una spaventosa carenza di grandi aziende , quelle che vincono nella economia della conoscenza e creano i high value jobs ben retribuiti per i laureati . Ma produrre laureati di buona qualità non basta.
Google è nata da due alumni dell’Università di Stanford ,i cui laureati eccellenti hanno anche creato Yahoo, Cisco e Sun Microsytems e altre 40mila aziende che hanno creato più di 5 milioni di high value jobs. I laureati dell’MIT hanno creato Qualcomm , Akamai , Bose , Intel con 3 milioni di high value jobs. Studenti , questa volta a Harvard , erano Bill Gates e Mark Zuckemberg. Le università eccellenti sono una componente essenziale degli ecosistemi d’eccellenza nella economia della conoscenza assieme a Venture Capitals , incubatori e grandi imprese . Questa componente essenziale da noi manca.La nostra migliore università , il Politecnico di Milano , veleggia al 150 mo posto e lontani sono i tempi in cui il polipropilene isottatico, inventato dal nostro ultimo Nobel Giulio Natta ,aveva creato una grande azienda nel gruppo Montedison , la Himont , poi travolta dal disastro del familismo del capitalismo ravennate di Raoul Gardini e Carlo Sama. Questa ricerca dell’eccellenza non viene solo snobbata , ma addirittura combattuta da molti nostri docenti . Nei primi giorni del 2020 ha fatto scalpore la critica sollevata da un rinomato professore di letteratura di una università del nord che ha criticato i premi ERC ( European Research Council)di 2 milioni di euro ai migliori ricercatori che, secondo lui sarebbero “un colpo grosso , un grosso pezzo di carne che si cala dall’alto che viene azzannato dal più forte e più scaltro…” – Gli ha risposto il rettore della Bocconi ricordandogli che gli ERC hanno finanziato 10mila progetti di ricerca , che hanno prodotto 7 premi Nobel.
Il rifiuto delle classifiche come misura dell’eccellenza e della qualità diventa ovviamente la seconda critica più ricorrente da parte dei docenti anti-meritocrazia. “Sono fatte dai cinesi e americani“, “gli atenei italiani non sanno comunicare, bisogna fare più lobby“. “I pesi ai vari criteri sono sbagliati“.
Non si rifiutano solo le classifiche, ma qualunque forma di misura, di premi (come gli ERC), di test (come gli INVALSI) che evidenziano qualcuno che è più bravo di un altro , che è l’essenza della competizione. Il cui rifiuto è purtroppo endemico nella nostra società (la considera irrimediabilmente truccata) ma nel caso degli atenei diventa particolarmente forte anche per colpa dell’ antico credo (V. sotto) che la “università deve fare cultura “ e che la “cultura non è misurabile“.
La realtà è un’altra. le classifiche sono diventate cruciali proprio nel nuovo secolo dell’ economia della conoscenza perché servono ai migliori studenti ,ricercatori e docenti per scegliere il proprio ateneo e ai finanziatori per decidere chi finanziare che si tratti di finanziatori privati che pubblici. Ignorarle significa darsi la zappa sui piedi.
E’ dal 1994, quando Carlo Azeglio Ciampi creò l’osservatorio per la valutazione del sistema universitario italiano, che lo stato italiano cerca invano di valutare gli atenei italiani per dare un po' di premialità ai finanziamenti pubblici all’università. Dopo l’osservatorio è nato il CIVR , poi l’ANVUR, sono cambiati i nomi e le sigle ma non è successo nulla , sempre per colpa della strenua opposizione dei docenti. L’ultima, quella del 2020 contro l’ANVUR, contesta la eccessiva quota premiale agli atenei con punteggio più alto. La realtà dimostra il contrario: il migliore degli atenei ha il 6% in più di finanziamento della media e il peggiore 6% in meno. Siamo lontani dalla logica del winner takes all.
Il terzo tipo di critica si rivolge alle cause della cattiva performance delle università italiane che viene attribuita in gran parte alla mancanza di fondi. Questa è sicuramente una giusta osservazione e in Aristocrazia 2.0 ho presentato una analisi comparativa tra il politecnico di Milano, l’ ETH di Zurigo e l’ Imperial college (460 milioni di euro vs 1.5 e 1.2 mdi) che la conferma appieno. Purtoppo questa critica dimentica di sottolineare tre fatti. Il primo è che dove I finanziamenti sono in gran parte pubblici come in Svizzera, se lo stato dà 1.1 bio a ETH non li dà ad altre università - non vale il mantra nostrano che “ le università sono tutte eguali” (e quindi la premialità nel loro finanziamento deve essere risibile). La seconda dimenticanza è la constatazione che la economia della conoscenza sta spingendo nel mondo il modello" di mercato “del finanziamento degli atenei (rette, grants di ricerca in gara e finanziamenti da parte di imprese, con riduzione del finanziamento pubblico) come quello dell’ Imperial College illustrato nel saggio in alternativa a quello interamente pubblico del ETH di Zurigo . Modello di mercato che ormai è realtà anche in atenei storicamente “ pubblici” come Oxford e Cambridge( ormai solo il 20 % di finanziamento dallo stato inglese) e quella che per anni è stata la “ mosca bianca pubblica” negli USA degli atenei privati, Berkley , che oggi ha solo il 14 % di finanziamento dallo stato della California. Lo stesso Politecnico di Milano ha già oggi più di 50 percento del suo finanziamento “ di mercato “ e non dallo Stato E, anticipando le critiche che ciò “ lede il diritto allo studio “ ricordo che in tutti questi Paesi gli studenti meritevoli e bisognosi possono contare su borse di studio e finanziamenti ( peraltro esistono anche da noi alla Bocconi e allo stesso Politecnico).
La terza dimenticanza di chi si lamenta dei pochi fondi è che i finanziamenti da soli non bastano - ci vuole anche la meritocrazia, che significa concorrenza ed essere valutati: da chi? Dal mercato per i finanziamenti privati (i grants per i ricercatori sono in gara) e con una seria valutazione della ricerca per i finanziamenti pubblici. Che da noi non è possibile perché, come detto sopra, è rifiutata dagli atenei.
E’ così che, mentre all’ estero le Università sono i templi della meritocrazia, da noi sono i bastioni del nepotismo con scandali a go-go che sono perfino arrivati a coinvolgere la autorità anticorruzione.
Il rifiuto della pessima performance dei nostri atenei e delle varie classifiche che la testimoniano è divenuto addirittura una piattaforma ideologica di aggressione senza alcun pudore alla meritocrazia . Nel mio saggio riporto decine di saggi e articoli nei quali molti illustri accademici hanno riversato la loro sapienza ed autorevolezza contro la ideologia della meritocrazia . “Università , non sarà la meritocrazia a salvare gli atenei italiani “. “Contro la meritocrazia“, “meritocrazia adesso basta“, “i tristi imperi del merito”, “attenti al merito“, “contro la ideologia del merito“. E molti altri ancora, favoriti da media e editori inconsapevoli e intimoriti dal titolo di “professore“.
Cosa c’ è dietro questo sfrontato rifiuto della meritocrazia da parte di tanti “professori“? Sicuramente ci sono ragioni di convenienza personale per mantenere i propri privilegi di potere e reddito che sarebbero messi in pericolo se anche negli atenei italiani nascesse la competizione. Ma c’è anche l’ idea pseudo – morale che gli atenei che abbracciano la meritocrazia , associandosi a un risultato economico alimentano la crescente diseguaglianza considerata immorale anche perché i meriti individuali non esistono veramente perché dipendono dalla fortuna, da Dio o dalla genetica e comunque non sono misurabili. Da qui l’unico vero valore morale, “ la cultura“, che deve restare la missione principe delle università.
A parte il danno che queste idee hanno fatto ai nostri atenei, ai giovani e al Paese, non si può non notarne la estrema ipocrisia. I docenti che tuonano a destra e a manca contro la diseguaglianza difendono un modello di istruzione aristocratico -feudale pensato per chi non deve guadagnarsi da vivere grazie all’istruzione perché il lavoro non è necessario dato che la ricchezza si eredita . Se nel medioevo i migliori rampolli facevano i militari o entravano in politica , oggi hanno il posto di lavoro assicurato nella azienda di famiglia . A che serve una ottima laurea ?
Nell’attesa e speranza che anche nel nostro Paese nasca la Aristocrazia 2.0 che descrivo nel mio saggio , quella in base alla quale i genitori lasciano ai figli non beni o ricchezze, ma i valori e i piccoli aiuti per conquistarsi una ottima laurea( e poi cavarsela da soli ) , cosa fare per uscire dallo stallo in cui si trovano i nostri atenei?
E’ necessaria una vera e propria rivoluzione delle università italiane con l’obbiettivo di avere almeno un paio di atenei italiani eccellenti research universities tra i primi 100 in un tempo non biblico. E’ una delle leve per salvare la nostra economia quando terminerà la “droga” del recovery fund , per esempio facendo rientrare qualcuno dei migliaia di cervelli italiani offendo loro possibilità di fare ricerca e didattica in un ateneo eccellente (o comunque deciso a diventarlo), producendo talenti che poi creeranno aziende innovative , magari con l’aiuto di fondi private equity anche essi pieni di talenti italiani emigrati.
Nel saggio ho suggerito una via pragmatica che riconosce che è pia illusione che lo stato italiano diventi come quello svizzero e dia improvvisamente più fondi premiali ai migliori atenei . Non potrebbe farlo neppure il super aristocratico 2.0 Mario Draghi ( PHD al MIT con un premio Nobel dopo ottima laurea alla Sapienza con Federico Caffè) che pure i fondi li avrebbe grazie al PNRR .Ma lo stato italiano non è quello svizzero che dà 1.1 mdi a ETH (e ovviamente non li dà ad altri) perché il giorno dopo il premier avrebbe tutti contro perché “le università sono tutte eguali“.
E allora la rivoluzione del sapere deve partire dal basso (come tutte le rivoluzioni), dai migliori atenei italiani che devono avviare il percorso per rinunciare gradualmente ai fondi pubblici e finanziarsi sempre più sul mercato conquistando la autonomia necessaria per attrarre , promuovere e retribuire i migliori docenti, PHD e post Doc che a loro volta , negli anni attrarranno sempre più finanziamenti in competizione con i migliori del mondo, che si tratti di grants , finanziamenti di imprese, donazioni di alumni o rette. E’ possibile e lo ha dimostrato l’IIT di Roberto Cingolani e lo stesso Politecnico di Milano che già è finanziato sul mercato per 50% del suo budget.
Il tema delicato è quello delle rette: al Politecnico di Milano le rette massime di 3900 euro all’anno sono un terzo di quelle della Bocconi e molto più basse di quelle dell’Imperial College (10 mila sterile per gli inglesi e 17mila per gli stranieri): basterebbe raddoppiarle su una popolazione studentesca metà di quella attuale per compensare totalmente la perdita di fondi pubblici. Ovviamente è un caso limite e comunque il finanziamento pubblico dovrebbe restare, ma solo per le borse di studio degli studenti meno abbienti e in misura molto più significativa di oggi: i 5mila euro di “diritto allo studio“ che ci sono oggi coprono solo in parte i costi di trasferta di un giovane che dal sud deve trasferirsi a Milano. Il processo graduale di ricerca dell’eccellenza nella ricerca in pochi atenei italiani deve prevedere anche la riduzione del numero dei laureati in queste università per concentrarsi più sulla qualità e meno sulla quantità. Può sembrare contrario anche all’obbiettivo sociale di aumentare il numero di laureati in un paese che ne ha così pochi, ma non lo è. I paragoni internazionali dimostrano che il gap è soprattutto sui laureati triennali, non sulle lauree magistrali. E i laureati triennali dovrebbero aumentare nelle altre università che dovrebbero diventare ottime università di sola didattica, soprattutto triennale e restituire dignità ai giovani laureati italiani nel mondo del lavoro. Anche qui sarebbe necessaria una rivoluzione perché perché il famoso 3+ 2 è fallito e la didattica è impreparata a insegnare le soft skills richieste dal mondo del lavoro nella economia della conoscenza. Purtroppo questo tema è troppo lungo per essere descritto in questo articolo.
Chi deve avviare questa rivoluzione meritocratica “dal basso“ degli atenei italiani? I docenti e ricercatori migliori magari guidati da rettori coraggiosi, che oggi sono una (spero) maggioranza silenziosa e rassegnata . Ma soprattutto gli studenti che devono protestare in piazza non più per il diritto allo studio ma per il diritto al lavoro.
Fonte: Il Messaggero