Il caso Thierry Breton scuote l'UE: negato il visto per gli Stati Uniti all'ex Commissario Europeo per il Mercato Interno che si era schierato contro Elon Musk
Thierry Breton ha contribuito alla stesura del Digital Services Act, una delle peggiori normative partorite dall'Unione Europea
“Thierry Breton è un attivista radicale”: con questa motivazione, gli Stati Uniti gli hanno negato il diritto di ingresso.
Naturalmente, per tutti i commentatori di casa nostra, il provvedimento è un grave atto di aggressione nei confronti di un esponente politico europeo democraticamente eletto; Ursula von der Leyen ha persino minacciato ritorsioni.
Sommessamente, avrei qualcosa da osservare. Mi si consenta (sono un vecchio liberale) di citare un commento dell'Istituto Bruno Leoni in merito alla polemica dei mesi scorsi tra Thierry Breton ed Elon Musk:
“La polemica via social tra il Commissario europeo per il mercato interno, Thierry Breton, e il proprietario di X (ex Twitter), Elon Musk, ha raggiunto un livello che non può più essere ignorato. (...) Da tempo le istituzioni europee accusano X di violare le regole, in particolare il Digital Services Act (Dsa), un regolamento europeo da poco entrato in vigore con l’obiettivo teorico di garantire maggiore protezione ai consumatori. (...) Quello che è intollerabile è che un rappresentante delle istituzioni, oltre tutto in uscita visto che una nuova Commissione dovrà sostituire quella attuale, si permetta di strattonare pubblicamente un’impresa per accuse che, appunto, sono ancora tutte da dimostrare. Lo scontro, in atto da tempo, è culminato con un tweet in cui Breton accusa X di generare confusione negli utenti attraverso l’attribuzione della spunta blu, che chiunque può ottenere sottoscrivendo un abbonamento. Secondo Breton, “una volta, la spunta blu era usata per individuare le fonti di informazione affidabili. Ora con X la nostra opinione preliminare è che: essa inganna gli utenti; essa viola il Dsa. X ha adesso il diritto di difendersi ma se la nostra visione sarà confermata imporremo delle sanzioni e pretenderemo cambiamenti significativi”. Ha avuto buon gioco Elon Musk a rispondere: “e come facciamo a sapere che sei proprio tu?”. Infatti, la spunta blu (sia ora, sia in precedenza) non fa altro che certificare l’identità dell’utente. Cioè, grazie alla spunta, gli utenti sanno con certezza che Breton è proprio Breton e Musk è proprio Musk, e non sono soggetti terzi che si spacciano per loro. Non è la prima volta che il Commissario si esprime in modo inaccettabile: poche settimane fa abbiamo denunciato il modo in cui aveva sbeffeggiato Apple, dicendo che il suo slogan avrebbe dovuto diventare “Act differently”, anche in quel caso sulle base di un’accusa ancora tutta da dimostrare. L’attacco di Breton è tre volte preoccupante: per il tono sguaiato, che è incompatibile con chi sta ai vertici delle istituzioni europee e dovrebbe fare del proprio meglio per applicare le norme, non per minacciare le imprese; perché dimostra evidentemente di non conoscere nel dettaglio la natura dell’accusa verso X; e, più importante di tutto, perché sembra accreditare l’idea che spetti alle piattaforme stabilire quali fonti di informazione sono “affidabili” e, a fortiori, alla Commissione europea decidere se lo fanno in modo corretto. La libertà di opinione, per come noi la concepiamo, coincide proprio col diritto delle persone di scegliere liberamente di chi fidarsi, senza che nessuno – tanto meno un politico – si permetta di dire cosa è la verità e chi ne è il portatore. Al di là del caso specifico, dunque, il comportamento di Breton ha un sottinteso che sarebbe ingenuo, sbagliato e pericoloso ignorare”.
Chi si scaglia contro il provvedimento delle autorità americane, sottovaluta (o ignora volutamente) la questione di merito sottostante. Negli Stati Uniti, la libertà di stampa e quella di espressione sono cose serie.
“Il popolo non sarà privato o limitato del diritto di parlare, scrivere o pubblicare i propri sentimenti, e la libertà di stampa, come uno dei grandi baluardi della libertà, sarà inviolabile”. (James Madison, 4° Presidente degli Stati Uniti).
Il Digital Services Act, entrato in vigore pochi mesi fa, pone a carico dei prestatori di servizi digitali l’obbligo di moderare e censurare i contenuti degli utenti, al fine - esplicitamente dichiarato - di prevenire “la diffusione di contenuti illegali” o “l’effetto negativo su diritti fondamentali, processi elettorali, violenza di genere, salute mentale”.
Salutato come una norma a tutela della salute mentale collettiva (sic!), il Digital Services Act è – almeno nelle finalità - la copia esatta della legge n. 2307 del 1925: un tentativo di censura della libertà di espressione.
Il regime fascista, il 31 dicembre 1925, promulgò la legge n. 2307 sulla stampa che disponeva che i giornali potessero essere diretti, scritti e stampati solo se avessero avuto un responsabile riconosciuto dal prefetto, vale a dire dal governo. Quelli privi del riconoscimento prefettizio venivano considerati illegali.
Analogamente, il 5 luglio 2022, il Parlamento Europeo ha approvato il Digital Services Act (DSA).
In estrema sintesi, il DSA prevede che tutti i prestatori di servizi digitali debbano, tra l’altro:
fornire informazioni esplicite sulla moderazione dei contenuti e sull’uso degli algoritmi per i sistemi di raccomandazione dei contenuti, che potranno comunque essere contestati dagli utenti;
collaborare con le autorità nazionali se richiesto;
denunciare i reati.
Inoltre, le piattaforme online e i motori di ricerca di grandi dimensioni, a partire da 45 milioni di utenti al mese, vengono assoggettate ai seguenti più rigorosi obblighi (indichiamo unicamente quelli più rilevanti nel contesto in esame):
condivisione dei propri dati chiave e dei propri algoritmi con le autorità e con i ricercatori autorizzati per comprendere l’evoluzione dei rischi online;
collaborazione con le autorità nelle risposte alle emergenze;
prevenzione dei rischi sistemici come la diffusione di contenuti illegali o con effetto negativo su diritti fondamentali, processi elettorali, violenza di genere, salute mentale.
In pratica, il DSA pone a carico dei prestatori di servizi digitali l’obbligo di moderare e censurare i contenuti degli utenti, al fine - esplicitamente dichiarato - di prevenire “la diffusione di contenuti illegali” o “l’effetto negativo su diritti fondamentali, processi elettorali, violenza di genere, salute mentale.”
Il DSA s’inserisce in un contesto normativo mondiale ben diverso:
In Italia, la censura è espressamente vietata dalla Costituzione. L’articolo 3 recita: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.” L'articolo 21 recita: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.”
I medesimi principi, veri e propri cardini della democrazia e dello Stato di diritto, sono esposti
1) nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, il cui articolo 10 recita: “Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiera.”
2) nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, il cui articolo 19 recita: “Ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.”
3) nel Patto internazionale di New York (ratificato in Italia con la legge 25 novembre 1977, numero 881) il cui articolo 19 recita: “Ogni individuo ha diritto a non essere molestato per le proprie opinioni.”
Se ne deduce che – almeno fino all’approvazione del DSA, salutato da Ursula von der Leyen come un accordo storico “in termini sia di rapidità che di sostanza”, ciascuno dei cittadini dell’Unione Europea fosse libero di esprimere sui social media (che fino a prova contraria rientrano nella categoria “ogni altro mezzo di diffusione”) il proprio pensiero e questo suo diritto individuale non potesse essere limitato da un regolamento di natura privatistica quale quello sottoscritto dall’utente al momento della registrazione sulla piattaforma di un prestatore di servizi digitali.
Per anni abbiamo denunciato la gravità della censura dei contenuti operata dai social media. Oggi siamo certi che Twitter e Facebook abbiano censurato i nostri post e ci abbiano sospeso gli account (e abbiano utilizzato algoritmi atti a nascondere i nostri post) a loro totale discrezione. La nostra inerzia ha fatto sì che una forma di censura del tutto illegale sia diventata legale (con l’approvazione del DSA). Tuttavia, si pone un problema di gerarchia delle norme in quanto il DSA confligge con norme costituzionali.
Da giurista, mi permetto un commento: il tempo dei diritti individuali è tramontato il giorno in cui ci siamo piegati, accettando senza ribellarci in massa una reclusione domiciliare imposta con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri. Da quel giorno, tutto è stato possibile, dagli obblighi vaccinali all’approvazione del DSA.
Certamente, proprio perché sono un vecchio liberale, condanno il provvedimento che limita la libertà di movimento di Thierry Breton.
Tuttavia, sotto sotto non posso che rallegrarmi che contro uno degli ispiratori del DSA ci sia stata una reazione: noi europei siamo in balia di istituzioni europee liberticide, imbelli, incapaci non soltanto di gesti di ribellione ma persino incapaci di comprendere la gravità della deriva liberticida imposta da nostri rappresentanti democraticamente eletti.
di Alfredo Tocchi, Il Giornale d'Italia, 25 dicembre 2025