La giungla, la toga e l’ascia del potere: viaggio feroce nella mente che ha normalizzato il bosco a colpi di ordinanza

Dentro l’ingranaggio giudiziario impersonato dalla “Giudice A.”, Cecilia Angrisano, dove ogni deviazione è un crimine e la libertà fa paura

La chiamerò Giudice A. Non perché sia un nome segreto, ma perché in questa storia la persona conta meno della macchina che rappresenta. Una macchina che non fuma, non beve e non ride: produce ordinanze, le partorisce come un organismo freddo che respira carta protocollata.

La Giudice A. non cammina: avanza. È la specie evoluta della burocrazia italiana, la creatura che respira moduli prestampati e sputa sentenze come fossero pellet compressi. Nel suo habitat naturale – un ufficio dove l’aria sa di toner e fatalismo – lei governa il caos con la furia glaciale di chi ha confuso l’ordine con la vita stessa.

Ho letto il provvedimento: una lama affilata, lucidata con parole che odorano di disinfettante. Una dichiarazione di guerra alla disobbedienza spontanea, al bosco, alla polvere, alla vita che non chiede permesso. A. non descrive: classifica. Non osserva: elimina variabili. È un bisturi con la firma in calce.

Nelle sue righe, i bambini non sono bambini: sono “minori esposti a rischio”. Le famiglie non sono famiglie: sono “nuclei disfunzionali”. Il bosco non è un luogo: è “assenza di condizioni minime”. E ogni assenza diventa un crimine.

Questa non è psicologia: è ingegneria sociale travestita da protezione. Una mente addestrata a vedere pericolo in ogni deviazione, fino a convincersi che la normalità sia un recinto da difendere con la stessa ferocia di un fortino assediato.

La Giudice A. brandisce l’ordinanza come fosse un machete. Sventra la complessità, recide le ambiguità. Niente spazio per il dubbio, per lo spiraglio umano. In questa versione distorta del mondo, l’autorità non salva: sterilizza. E quando sterilizzi abbastanza, alla fine muore anche il selvatico che tiene in vita il resto di noi.

Hunter S. Thompson avrebbe riso amaramente di fronte a questa epica della normalizzazione forzata: “Quando diventi troppo sobrio da non vedere la follia attorno a te, sei già parte del problema". La Giudice A. è sobria fino alla cecità, lucida fino all’allucinazione.

Resta questo: un bosco che pulsa, una famiglia che ci vive dentro, e una mano remota che decide che tutto ciò non può esistere. Il paradosso è che il vero rischio, qui, non è il bosco.

Il vero rischio è la convinzione – feroce, impermeabile, fanatica – che l’ordine sia più importante della libertà.