Closer, la nuova app che aiuta a uscire dalle dipendenze con la forza della famiglia
Quando si parla di dipendenze tra i giovani – dall’alcol alla cannabis, dalla dipendenza digitale fino al gioco d’azzardo – si pensa spesso a una battaglia individuale. In realtà, nessuno guarisce da solo. Anche un singolo comportamento di abuso coinvolge l’intera rete affettiva: genitori, fratelli, partner, amici. La famiglia diventa il fulcro per aiutare un ragazzo o una ragazza a uscire da una dipendenza. Ed è proprio da questa consapevolezza che nasce Closer, la nuova app dell’Istituto Europeo delle Dipendenze (IEUD), pensata per integrare tecnologia, terapia e relazioni familiari in un unico percorso di cura.
«La vera innovazione di Closer – spiega Federico Seghi Recli, fondatore e presidente di IEUD – è la possibilità di adattare il coinvolgimento dei familiari agli obiettivi di cura. Non partiamo dal presupposto che includere la famiglia sia sempre positivo, ma quando lo è, la tecnologia può renderlo più intelligente, sicuro e produttivo».
La piattaforma consente infatti di monitorare il percorso terapeutico in modo condiviso, favorendo una comunicazione mediata tra paziente, famiglia ed équipe clinica. Questo permette di evitare pressioni o fraintendimenti, promuovendo un dialogo costruttivo e continuo. Il coinvolgimento dei familiari può essere calibrato: da un livello informativo, con aggiornamenti e contenuti psicoeducativi, fino a una partecipazione più attiva, nei casi in cui le condizioni relazionali lo rendano utile e sostenibile.
Non tutte le famiglie sono contesti protettivi: in presenza di conflitti o ruoli confusi, il rischio è di alimentare le stesse dinamiche che hanno favorito la dipendenza. Per questo Closer si propone come strumento flessibile e supervisionato, capace di modulare la partecipazione e di offrire sostegno anche ai caregiver, senza sovraccaricarli.
L’app non sostituisce l’incontro umano, ma lo arricchisce: rende il percorso più continuo, accessibile e condiviso. Un passo avanti verso un modello di cura che mette al centro non solo la persona, ma il suo mondo di relazioni. Perché la guarigione, anche nell’era digitale, resta sempre una costruzione collettiva.