Beatrice Venezi è l’esempio di come la sinistra esercita il proprio dominio culturale: è la "bacchetta nera" che deve essere scaraventata giù dal podio
Non ci può essere una “prima” con lei direttore. E soprattutto non ci possono essere crepe nell’egemonia culturale di sinistra
La questione dell’egemonia culturale a sinistra esiste. Non è un capriccio di chi, dall’altra parte del campo, ne fa menzione. È un tema complesso, che comprende una ideologia, una costruzione della stessa ma - soprattutto ora che le tesi anche a sinistra si sono parecchio indebolite - un network di diffusione strutturato che non deve perdere posizioni.
La sinistra batte il tempo nella musica, scandisce la letteratura pop, l’entertainment (cinema, fiction e tv), nel teatro. La sinistra costruisce una narrazione: l’esempio della ideologia woke è lampante, ma averla portata fin troppo “oltre” ha provocato una reazione popolare. Tuttavia è innegabile che su certe battaglie a loro dire progressiste quella costruzione del prodotto e la difesa del “santuario” diventa egemonica.
È altresì vero che con l’avvento di Berlusconi qualcosa è cambiato, ma il Cavaliere era soprattutto un imprenditore e per quanto avesse capito l’importanza di una contro-narrazione non ha commesso l’errore imprenditoriale di smontare un impianto che comunque gli portava un vantaggio. La destra, questo fattore non l’avrebbe, tuttavia non riesce a costruire un qualcosa di sovranista, identitario e conservatore che resti. La Rai è una occasione persa. Ma anche il cinema e le fiction. La scelta di un ministro come Alessandro Giuli, da questo punto di vista, non aiuta essendo egli stesso assai sensibile al mondo della sinistra: del resto il ragazzo si prese una cotta culturale per Matteo Renzi, diventando un suo testimonial per il referendum costituzionale, e cercò di consolidare quel rapporto scrivendo un libro su Gramsci (come se a sinistra avessero bisogno di Giuli che spiegasse Gramsci). Ora che è tornato all’ovile ovviamente costrosterza. Ma non regge.
Non regge il bastione che l’egemonia di sinistra ha eretto e che difende. Sono giorni che mi ritrovo sui giornali il caso di Beatrice Venezi e trovo volgare e infamante il chiaro obiettivo di vederla sconfitta nella “guerra della Fenice”. Ormai non è più una questione tra addetti ai lavori, è piuttosto una questione dimostrativa generata a sinistra di come si debba agire per non aprire alcuna breccia nel controllo di un settore culturale.
Con Beatrice Venezi penso che siamo di fronte a una dimensione nuova di approccio generazionale, un po’ come le fughe in avanti di quei registi che calano - com’è giusto che sia - le grandi opere nella modernità dei tempi: la musica classica e l’opera vivono anche nella contemporaneità, parlano anche a queste generazioni. Ho ascoltato brani di Vivaldi e di altri grandi compositori nelle esecuzioni di David Garrett, violinista eclettico di notevole tecnica e coraggiosa capacità di contaminazioni di generi. È nella musica classica Ludovico Einaudi e Giovanni Allevi, il successo dei quali (specie all’inizio) fu assai criticato dai puristi della classica. Oso e dico anche che trovo “sinfonico” persino Jean-Michel Jarre, le cui sperimentazioni sinth è come se rincorressero - si parva licet componere magnis - l’estro capriccioso di Mozart (il più grande genio musicale mai sceso in terra). Non ho storto il naso di fronte alle “invasioni di campo” di Paolo Conte e Vasco Rossi nel sacro tempio della Scala di Milano.
Alle giovani generazioni rischiamo di non saper trasmettere la bellezza della musica che non sia quella che si consuma nei frame a corredo delle storie Instagram. E allora che male c’è a rompere gli schemi? Che rischio corre la Fenice se il direttore è anche un po’ influencer, nel senso che parla il linguaggio di questa generazione? Quella musica classica e quell’opera che stiamo ben difendendo, come dimostrano gli ottimi dati di presenza nelle arene e nei teatri, ha bisogno di essere ascoltata dai giovani, perché sarebbe il più presuntuoso dei peccati escluderli.
Tutto questo ha a che fare con Beatrice Venezi, la quale è una bacchetta “nuova”nella postura, “pop” e commerciale quando si presta come testimonial pubblicitario, ed è giovane. Ha una sua idea di Italia, quindi ha dei suoi riferimenti politici di stampo conservatore. E questo è il suo peccato originale. Che oggi paga. Io non ho mai visto tanto livore e tanta perseveranza nell’attaccare ogni giorno un professionista. Questa è una campagna promossa dal corporativismo politico, da chi si sente padrone degli spazi. Ogni giorno, Repubblica batte il tempo della Veneziade: o l’intervista a un protagonista o l’aggiornamento dei mal di pancia del clan “La Fenice” o ancora le sottolineature sulla campagna pubblicitaria come se avesse violentato Čajkovskij.
E poi la “eccessiva esuberanza nella direzione”: a Niccolò Paganini dissero che era il violinista del diavolo perché pareva un indemoniato quando dava saggio dei suoi virtuosismi. Anche Beatrice Venezi è la bacchetta del diavolo, la bacchetta nera. Quindi dev’essere scaraventa giù dal podio della Fenice. Non ci può essere una “prima” con lei direttore. E soprattutto non ci possono essere crepe nell’egemonia culturale di sinistra (che esiste, eccome se esiste…).