Al funerale di Paolo nessuno. Nessuno. A debita distanza, i bulli responsabili della sua morte sghignazzavano

Lo hanno ucciso due volte e stanno già assolvendo senza processo i colpevoli. Dice il fratello: "Mi ha salvato Renato Zero". La poesia come antidoto alla crudeltà, Ma neppure un poeta può salvare un mondo avariato.

Nel tempo della assoluta libertà di essere e perfino di non essere, di percepirsi, il suicidio indotto del giovane Paolo Mendico assume tutti i contorni di una brutale negazione del diritto di essere, della mancanza di rispetto o, come usano dire i buoni, i corretti, di fascismo. Perché non c'èdubbio che quel suicidio è stato indotto, ogni minuto di ogni giorno di ogni anno per cinque anni, fin da quando Paolo era un bambino delle elementari. E l'induzione al suicidio è un delitto punito con la galera. Ma i responsabili, romanticamente chiamati bulli anziché carnefici, non rischiano niente e lo sanno: “siete voi le vere vittime, non abbiamo saputo ascoltarvi”. Ascoltarli mentre infierivano su un loro simile, indifeso, dolce? Mentre gli negavano il diritto di essere gentile, di portare i capelli lunghi, di amare la musica, di comportarsi nel modo delicato, trasognato che loro non accettavano, non conoscendolo? Un giudice ha stabilito subito i contorni dell'impunità: “Qualunque sarà l'esito, vediamo come tragedie simili nascano dall'incapacità di comprendere e accogliere le diversità”. Ma la sociologia spicciola dei magistrati e dei predicatori ha stufato, questo continuo scavare nel banale per lavarsene le mani non si può più accettare: qui c'è un ragazzino indotto ad uccidersi da una banda di coetanei infami che lo hanno torturato in tutti i modi, sostenuti da famiglie complici, nell'omertà degli insegnanti, che facevano muro, che invitavano a “non parlare coi carabinieri”. E Paolo i segnali di disperazione non si stancava di mandarli.

Il tempo dove tutti possono essere o millantare quello che vogliono è in realtà un tempo di profonda intolleranza, dove si può essere chi si vuole a patto che coincida con precisi parametri che vanno dall'ideologico al moralistico. Un normale, banale padre di famiglia è considerato patriarcale di per sé, uno dalla carnagione chiara una provocazione a prescindere, uno che difende la nascita anziché l'aborto modaiolo uno da far fuori, come in America il polemista Kirk del quale gli umanitati in servizio permanente dicono: se l'è cercata, uno di meno, è stato fatto fuori da uno come lui. E invece era un giovane con tendenze pedofile che conviveva con un trans e scriveva perfino sulle pallottole i versi di “Bella Ciao”. A suicidio scoperto i responsabili avevano una sola preoccupazione: adesso che succede? Non è che ci vengono a prendere a casa? E in questa unica, vile preoccupazione sta tutta la loro condizione di amputati dell'anima, di miserabili assassini incapaci di rimorso. A quattordici anni. Al funerale di Paolo, nessun insegnante e solo un compagno di scuola. A debita distanza, il drappello di quelli che lo avevano fatto morire, dei loro amici, ridacchiava come in un fumetto cattivo, maligno. Come a dire che lo hanno ammazzato una seconda volta. Cari giudici che assolvete in anticipo, che usate la sociologia di sinistra per risolvere l'abominio, lo vedete il crimine? Li vedete i responsabili? Quelli che dicevano ai giovani aguzzini “zitti, nessuno parli con gli sbirri”? Perfino un profano di diritto sa, capisce che dietro questo suicidio indotto c'è una organizzazione diffusa, una omertà diffusa. Procederà la magistratura? Noi pensiamo di no, pensiamo che come sempre alzerà un po' di polverone per pararsi con i media, per poi concludere nel segno della fatalità, magari della debolezza intrinseca della vittima, unica colpevole della sua morte. Ma chiudere col pilatismo giudiziario non fa chiudere una piaga che si allarga: un giovane su quattro vittima di prepotenze e autentiche torture, e sono solo i casi denunciati, risaputi.

Nel tempo degli scrupoli patetici, delle parole vietate, dei sostegni e delle istituzioni pletoriche, benintenzionate ma irrilevanti o ipocrite, i ragazzini non sono mai stati così fragili e così esposti all'altrui brutalità. Con la cosiddetta società civile che si arrende allo stato di fatto e pretende di esorcizzare gli abissi che cova con le parole, le formule. La verità è che nessuno si turba, nessuno si vergogna per una vicenda miserabile, il suicidio indotto di un ragazzino sempre solo, umiliato, emarginato, maledetto come il figlio dell'oca nera perché era strano, amava la pesca e la musica, amava genitori considerati strani, che lo avevano allevato alla dolcezza, alla sensibilità: valori da sbandierare, alle cerimonie, nelle fiaccolate tardive, in realtà peccati da non perdonare spazzando via chi li tradisce. Ha detto il fratello di Paolo, Ivan: “Anche io ho conosciuto quelle umiliazioni, ma io le ho affrontate diversamente, ascoltando Renato Zero, rifugiandomi nella sua poesia”. Non a caso, un artista che conosce la diversità, conosce la pena, il dolore di scontarla. È una rivelazione importante: “ascoltando la sua poesia”, la poesia come antidoto al male, alla cattiveria e anche alla falsità di un mondo mellifluo, che ti irretisce, ti illude, ti invita ad essere chi vuoi essere ma poi non te lo perdona. Pochi sono stati coerenti come Renato nella poesia, che conforta, che salva, troppi indulgono nel cinismo, nella violenza visiva, nell'elogio maranza della malavita, del sopruso, del soldo troppo facile, della merda troppo esibita. Ai funerali di Paolo, ucciso dai bulli, nessuno: e vedere quel feretro derelitto, come quello di Mozart, stringe il cuore in una morsa, suscita un grido in cerca di una giustizia che non c'è, che non verrà.