Beniamino Zuncheddu in carcere per 33 anni da innocente e lo Stato non paga: ma quanto ancora deve aspettare ‘sto povero cristo?

Non so se, nell’epoca della società liquida, ci rendiamo conto cosa voglia dire restare in cella per gli stessi anni di Gesù sulla terra

Lo so che il mondo si sta avvitando e accartocciando nelle ingiustizie e ce ne sono di più grandi, però mi sia consentito di illuminare anche questa storia. E di invitare gli interessati a firmare la proposta di legge di iniziativa popolare promossa dai Radicali: io lo farò. C’è tempo fino al 31 ottobre.

Parliamo di malagiustizia, che è una espressione che non condivido perchè tende a spersonalizzare le responsabilità proprio in un contesto - il diritto - dove invece le responsabilità finiscono in capo a persone precise.

Beniamino Zuncheddu per tutti, oggi, è “il pastore sardo che è stato in carcere per 33 anni. Da innocente”. Non so se, nell’epoca della società liquida, ci rendiamo conto cosa voglia dire restare in cella per gli stessi anni di Gesù sulla terra.

Trentatré anni per salvare il genere umano, mandato direttamente dal Padreterno; trentatré per annientare un uomo perché il sistema giudiziario concede ai magistrati una specie di diritto divino di vita o di morte. “Ecce Zuncheddu”, ecco Zuncheddu la vittima dell’errore giudiziario destinato a finire sui giornali e in tv: prima perchè ritenuto colpevole di un omicidio, poi perché dichiarato innocente in via definitiva, e ora perché lo Stato è talmente civile che non gli ha ancora risarcito il danno per l’ingiusta detenzione dopo due anni dalla sentenza. Ma quanto deve aspettare ‘sto povero cristo per avere solo un pezzo di quel che ingiustamente gli è stato tolto? La libertà non ha prezzo e il tempo in carcere nemmeno. Ma il conto corrente si è svuotato eccome per ottenere quella libertà negata e non far crescere il tempo in carcere. Dimostrare di essere innocente e soprattutto rovesciare le tesi dell’accusa costano tanti, tanti soldi. Lo squilibrio delle parti è evidente: l’accusa conta sulla spesa pubblica, dalla polizia giudiziaria alle consulenze, dalle intercettazioni alle altre spese per portare avanti l’accusa nel corso delle indagini. Persino il carcere come misura cautelare è un costo che in qualche modo potremmo ascrivere all’accusa perché mira a evitare la fuga o l’inquinamento delle prove (la reiterazione del reato invece è già più largo). Chi si difende invece deve provvedere per sé. Dimostrare di essere innocente e avvicinarsi al riequilibrio dei rapporti di forza ha un costo enorme. Che Zuncheddu e quelli come lui hanno sostenuto. Ripeto: gente innocente schiaffata in carcere che deve dimostrare di essere vittima di un errore.

Ci sono voluti 33 anni per dimostrare di essere innocente rispetto all’accusa di omicidio. Sono trascorsi due anni da quella sentenza di assoluzione: perché questo signore ancora non ha ricevuto i soldi che lo Stato gli deve? Perché deve campare appoggiandosi a parenti ed amici mentre i magistrati che lo hanno ingiustamente incolpato si prendono ancora lo stipendio? Perché quei magistrati non soltanto non hanno responsabilità per l’errore che commettono (cioé rovinare la vita a cittadini innocenti) ma nemmeno contribuiscono alla riparazione del danno che loro hanno creato? Perché non girano almeno un terzo del loro stipendio (pagato con i soldi dei contribuenti perché sono dipendenti pubblici)?

Zuncheddu non è un caso isolato. Zuncheddu è la punta dell’iceberg tanto che - come vi dicevo - è in corso una raccolta firme promossa dai Radicali (e io firmerò; c’è tempo - lo ricordo - fino al 31 ottobre) per fare in modo che almeno ci sia un assegno mensile provvisorio in attesa del risarcimento. È una battaglia di civiltà, è una battaglia che dovrebbe unire tutto il parlamento. Che senso ha - lo domando provocatoriamente, perché ne ha eccome - parlare ancora di Enzo Tortora, di celebrarne il dramma oltre che il professionista con una serie televisiva, quando poi siamo ancora alle prese con le stesse, medesime dinamiche? Dopo Tortora le vittime della cosiddetta “malagiustizia” (definizione che ancora una volta distoglie dai responsabili, ossia i magistrati) sono aumentati in maniera esponenziale. E allora domando come sia possibile assistere all’aumento di questi casi e contemporaneamente restare inermi sul fronte del risarcimento. Sia chiaro, il risarcimento non è una pacca morale che lo Stato dà al poveretto che è incappato in una brutta disavventura; no, il risarcimento è il minimo che uno Stato deve restituire a chi si è impoverito, intaccando risparmi e indebitandosi, per affrontare i gradi di giudizio, le perizie e ogni spesa che la complessa macchina giudiziaria comporta.

E poi c’è tutto l’altro tema: trentatré anni in cella da innocente, anzi nelle schifose celle dove ormai il senso della giustizia si è assottigliato assieme a quello dell’umanità. Ma fintanto che questo dramma non ti passa accanto il tema carcere è un non tema. Eppure il potere dei giudici, quello che consente loro una specie di ius vitae ac necis, il potere di incutere paura con la minaccia di “schiaffarti dentro”, poggia anche sulla schifosa condizione delle carceri.

di Gianluigi Paragone