Addio a Gianni Berengo Gardin, morto a 94 anni uno dei più grandi fotografi italiani del Novecento, iniziò la sua carriera presso l'Olivetti

Nel 1969, con Carla Cerati e sotto la guida dello psichiatra Franco Basaglia, realizzò "Morire di classe" (Einaudi), un libro che denuncia le condizioni disumane degli ospedali psichiatrici italiani

Gianni Berengo Gardin, tra i più grandi fotografi italiani del Novecento, è morto a Genova all’età di 94 anni. Con il suo sguardo rigorosamente in bianco e nero ha attraversato oltre settant’anni di storia, costruendo un’inesauribile memoria visiva del Paese.

Nato il 10 ottobre 1930 a Santa Margherita Ligure, sentiva però Venezia come la sua vera patria: è lì che aveva studiato e compiuto i primi passi con la macchina fotografica, che da allora non avrebbe mai più abbandonato.

Addio a Gianni Berengo Gardin, morto a 94 anni uno dei più grandi fotografi italiani del Novecento, iniziò la sua carriera presso l'Olivetti

Berengo Gardin non è stato solo un fotografo, ma un testimone etico, un poeta del reale, un osservatore paziente e instancabile dei mutamenti sociali e culturali dell’Italia. Il suo archivio supera i due milioni di negativi: un patrimonio immenso, costruito con coerenza e dedizione.

Si definiva con orgoglio “un artigiano”, e non un artista. Rifuggiva l’idea della fotografia come esercizio estetico fine a sé stesso, preferendo l’impegno civile e la responsabilità documentaria. “Il mio lavoro non è artistico, ma sociale e civile. Non voglio interpretare, voglio raccontare”, diceva.

Il suo obiettivo si è sempre posato sull’essere umano, nei gesti quotidiani, nel lavoro, nell’intimità e nei luoghi del disagio. Ha documentato l’Italia contadina del dopoguerra, il boom economico, la vita dei Rom, l’industria, le periferie, ma soprattutto i manicomi: proprio in questo ambito ha realizzato uno dei reportage più sconvolgenti della sua carriera.

Nel 1969, con Carla Cerati e sotto la guida dello psichiatra Franco Basaglia, realizza "Morire di classe" (Einaudi), un libro che denuncia le condizioni disumane degli ospedali psichiatrici italiani. È un lavoro visivo potente, fatto di immagini crude ma composte, che contribuisce in modo decisivo al dibattito culturale che porterà, nel 1978, all’approvazione della Legge Basaglia e alla chiusura dei manicomi. “Fotografavamo solo con il consenso dei malati – ricordava – ma non volevamo mostrare la malattia, bensì la condizione.” Una fotografia, dunque, non per scioccare, ma per generare consapevolezza.

Negli anni Sessanta, viene assunto come fotografo ufficiale dalla Olivetti, un’esperienza fondamentale per la sua carriera. L’azienda di Ivrea, all’avanguardia nella comunicazione, gli permette di affinare la tecnica e il linguaggio visivo. Le sue immagini degli impianti, della vita aziendale e dei progetti architettonici raccontano un’Italia moderna, dinamica, ma ancora saldamente ancorata alle proprie radici. In questi lavori la precisione compositiva e l’attenzione al dettaglio diventano veri e propri tratti distintivi.

Berengo Gardin ha vissuto tra Venezia, Roma, Lugano, Parigi e infine Milano, dove si trasferisce nel 1965 e da dove darà avvio a una lunga carriera da fotografo freelance. Collabora con importanti testate italiane e internazionali — Il Mondo, Domus, Epoca, L’Espresso, Time, Stern, Le Figaro — ma il suo strumento prediletto resterà sempre il libro fotografico.

Nel corso della sua vita ha pubblicato oltre 260 volumi e ha esposto in più di 360 mostre personali, in Italia e all’estero.

Berengo Gardin lascia in eredità uno sguardo umano, lucido e profondamente etico: un racconto per immagini che ha dato voce ai silenzi, documentato l’invisibile e mostrato l’Italia nella sua verità più autentica.