Va di moda il disagio, ma a precise condizioni: vip, mediatico e affaristico. Ossia millantato. E redento
Il disagio è una dimensione ormai mitizzata e come tale deve funzionare in pubblicità, quello dei poveracci nei tuguri di periferia non interessa a nessuno.
Va di moda il disagio. Che disagio? Quello che si può raccontare, da ricchi e famosi, traendone discreti vantaggi. Il disagio è una dimensione ormai mitizzata e come tale deve funzionare in pubblicità, quello dei poveracci nei tuguri di periferia non interessa a nessuno, è dato per scontato, al limite può diventare materia di propaganda elettorale, tipo Ilaria Salis che ci ha fatto carriera da europarlamentare, ma il disagio vero, quello che appassiona, devi avercelo a due condizioni: una, essertelo procurato con una vita svaccata, cui segue ovviamente la redenzione e il lieto fine, perché, come diceva Benedetto Croce, “non possiamo non dirci cattolici”; due, essere famoso, vip, uno che può raccontartelo, infliggendoti pure lezioni di vita. Disagio è quello dei cantanti da un tormentone, che dopo un solo Sanremo, un solo giro di giostra, dicono: non ce la faccio più, troppo successo, troppo, devo ritirarmi un po', ma voi aspettatemi. Da noi non si contano, anzi non sei un artista da “troppo successo” se non covi il disagio incorporato, ma è un ricalco, una proiezione pedestra sulla scia della strategia americana: là le cose le inventano, e le inventano bene. C'è una, per esempio, certa Billie Eilish, che sul disagio ha costruito la carriera, prima disagiata e poi popstar e sapete come mai? Perché non veniva a patto con le sue “molte nature sessuali” e da piccola (detto da una di 18 anni) avevo vergogna del mio seno. Che adesso, “da grande”, non rinuncia mai a sfoderare in tutta la sua opulenza da sesta misura. Sapete, sono i contratti, le strategie social, ogni poppa scoperta sono vagonate di dollari che ti piovono in tasca, così almeno lenisci il disagio.
Disagio, profondo disagio anche per veline, influencer, modelle ed eterne aspiranti. Una tiene banco in questi giorni, vuol fare l'attrice a 50 anni, e racconta del suo alcolismo, dei suoi millanta amanti, delle sue derapate, che uno potrebbe anche concludere, banalmente: che spreco di vita. Invece no, è il disagio, ma adesso va tutto bene (c'è anche questo di misterioso, quel risalire magicamente da abissi di sabbie mobili come niente, e non si capisce mai se per intervento divino, stregonesco o grazie “all'amore della mia vita”, di solito a scadenza. Prosit). Ma il caso migliore di disagio è quello appena saputo della corridora americana Sha'Carri Richardson: avendo pestato il moroso collega sotto gli occhi di un intero aeroporto, è subito passata lei da vittima, da martire siccome “ha il disagio”, in forma di traumi infantili irrisolti: l'hanno spedita d'autorità ai mondiali di Tokyo in settembre, nessuna conseguenza giudiziaria, fosse successo a parti inverse, lui che pressava lei, sai gli strepiti. Anzi, pare che prodigiosamente siano raddoppiati gli sponsor, di numero e di tariffa. Il fatto è che Sha'Carri ha tutte le carte in regola ma proprio tutte: è campionessa sportiva, quindi gallina dalle uova d'oro; è black; è bisessuale; viene dal ghetto o giù di lì; è una “cattiva ragazza”, qualsiasi cosa voglia dire (il politicamente corretto non disdegna le contraddizioni, anzi se ne nutre); ed è, fatidicamente, disagiata, insomma “ha i suoi problemi come tutti e deve lavorarci su”. Ma finché la premiano anziché sanzionarla, non ci lavora per niente. E subito il tam tam woke parte con il patriarcato, per una volta non direttamente bianco siccome tutti lì in mezzo sono neri, ma in qualche modo ci si risale perché, gira che ti rigira amore bello, è sempre colpa di Trump, come per la pubblicità dei jeans con la modella dei Rolling Stones. In Italia, per dire, certa fogna genderfluid ha trovato modo di esultare sul massacro del balordo di Gemona, stordito, lasciato agonizzare, finito e fatto a pezzi da moglie e madre, due donne, considerato “una vendetta contro il patriarcato bianco tossico” che avrebbe ingenerato “profondo disagio” nelle due femmine zombie. E quando si arriva a simili perversioni mentali, che altro vuoi star lì a discutere?
Nessuno è sfiorato dal sospetto che il disagio, vero, profondo non è roba da gen Z viziata che si deprime siccome “non può sempre avere quello che vuole”, per dirla con Mick Jagger, e anche quando ce l'ha non gli basta perché la sua psiche, la sua anima sono di burro, ma rancido; è tutt'altra faccenda, scava inferni e non è detto poi se ne esca. Come sta succedendo a Vittorio Sgarbi, uno che per tutta la vita è corso più veloce di se stesso e, quando non ce l'ha fatta più, da se stesso è stato raggiunto, ghermito. A lui va tutta la nostra solidarietà, il nostro affetto di esperti di un disagio fin troppo conosciuto. E chi ne esce non ha nessuna voglia di darlo in pasto ai media e agli sponsor, lo ricorda come un orrore troppo grande, da tenere rinchiuso: sa che potrebbe risalire da chissà quale abisso, in ogni momento, e non vive mai tranquillo. Il disagio vero ha mille madri, dalla miseria alla genetica, dall'ingiustizia alla solitudine, alla malattia, ad una sensibilità estrema e magari distorta, ma non passa mai completamente, sfregia la psiche e l'anima, e chi ce l'ha lo sa riconoscere subito, sia quando è reale che, a maggior ragione, se recitato. Siamo pieni di gente che recita, ecco tutto, e recita per calcolo, per farla franca, per moda. E non fa niente per dedicarsi agli altri, perché chi finge disagio sta alla larga dal disagio, dalla sofferenza, ne teme il contagio, ha paura di non poter più fingere, per fare soldi, per fare soldi.