Muore il BR Fiore e per l'informazione è tutto chiaro, tutto spiegato, come un fumetto o una fiction. Invece la sua è l'ennesima fine che lascia gigantesche zone d'ombra
Sul terrorismo italiano le zone d'ombra, le cose che non si sanno, e di cui ancora non si deve parlare, superano largamente le chiarezze dopo più di mezzo secolo. E ogni morte le conferma.
I cosiddetti mezzi di informazione hanno riservato poche e distratte righe alla morte del terrorista Raffaele Fiore, trattato come una specie di influencer di piombo invece che lo spietato brigatista che fu, uno dei più rilevanti e opachi, qualità che lo segue postumo. Cominciamo proprio dalla sua morte, riferita a non precisate cause naturali “dovute alla tarda età”. Ma Fiore non era per niente anziano, aveva 71 anni e non si sapeva, come non si sa, di patologie pregresse tale da determinarne la morte prematura. Anche lui scarcerato anticipatamente, in modo premiale, come tutti i suoi colleghi, in ossequio alla profezia del giornalista spione Mino Pecorelli: “Un giorno verrà una provvidenziale amnistia a tutto sanare, tutto obliare”. Per dire la pietra di Stato sopra i misteri, chi aveva avuto aveva avuto e di misteri Fiore ne covava fino a scoppiare. Salito dalla Bari vecchia e criminale dei primi anni Settanta, si politicizza al nord, alla Breda siderurgica di Sesto San Giovanni alle porte di Milano, nel sindacalismo operaista dei cub, fino ad entrare nelle Brigate Rosse dove diventa uno dei dirigenti più giovani e più spietati, capo della colonna torinese. Sta nel commando di di via Fani che preleva Moro dopo averne trucidato la scorta, e mentirà sempre sulle circostanze in adesione al memoriale bugiardo confezionato dal dissociato Valerio Morucci ad uso dei Servizi Segreti: a sentire Fiore, le armi sue e degli altri 4 del commando di fuoco si sarebbero inceppate tutte, ma a smentirlo sono le perizie balistiche su 5 processi. Si contraddice quando sostiene di non conoscere proprio tutti i brigatisti, avallando l'ipotesi di presenze esterne al nucleo terrorista, i cui membri direttamente incaricati dell'azione, della sparatoria, indossavano divise da avieri non per “passare inosservati”, spiegazione del tutto strampalata, quanto, se mai, per riconoscersi tra di loro.
Fiore ammetterà anche, col collega Peci, il particolare della vegetazione sabbiosa lasciata nei risvolti dei pantaloni di Moro a scopo, a suo dire, di depistaggio: ma se depistaggio fu, lo fu a Matrioska, uno dentro l'altro; successive perizie confermeranno in effetti la più che probabile presenza di Moro lungo il litorale di Focene, nel periodo immediatamente precedente la sua esecuzione. Oggi si sa con certezza che Moro girò parecchi covi prima di venire ucciso, e che quello di via Montalcini, a lungo spacciato come unico, fu in realtà una tappa relativamente breve, di passaggio: altri si ebbero nella via Massimi prossima a via Fani, in zona Balduina, poi proprio lungo il litorale romano, e da ultimo nella zona del ghetto ebraico, da dove fu trasportato nella vicinissima via Caetani.
Fiore fu anche l'assassino del giornalista Carlo Casalegno, pochi mesi prima del rapimento: suoi i 4 colpi, sparati male, non letali immediatamente, che provocarono alla vittima una agonia di 9 giorni. È pure tra i protagonisti dell'omicidio del presidente dell'Ordine degli avvocati di Torino, Fulvio Croce, abbattuto per bloccare il primo processo alle Brigate Rosse, il 28 aprile 1977: con lui la moglie Angela Vai e Lorenzo Betassa, quest'ultimo nel nucleo torinese insieme alla stessa Vai, a Peci, Coi, Piancone, Mattioli, Pianciarelli, Micaletto e alla Nadia Ponti: quest'ultima è sospettata di delazione proprio ai danni di Fiore, di averlo bruciato con una telefonata anonima; quando anche Piancone cade, la Ponti, che non è donna di facili emozioni, non fa una piega e Micaletto le dice: “Tu sei contenta che il tuo uomo sia stato tolto di mezzo, così puoi entrare nella direzione del Fronte”.
Meschinità comuni a tutti gli esseri umani in tutte le situazioni, d'accordo, ma in questo caso coperte e perfino nobilitate da un contesto terroristico dove le ragioni politiche si confondevano ai carrierismi anche mediocri, ai regolamenti di conti spietati, alle motivazioni più false, alle efferatezze più tattiche, meschine, che ideologiche. Si legge in una di queste cronache frettolose, sciatte: “La morte di Fiore chiude definitivamente il percorso di una figura controversa, protagonista della strategia della tensione e di uno dei sequestri più drammatici della storia italiana”. È esattamente il contrario, sulla morte di uno dei brigatisti più importanti e più sanguinari non si sa niente e la sua fine si porta via i tanti misteri che lo hanno avvolto in vita. Sulle Brigate Rosse, su come si formarono, su come furono lasciate libere di imperversare almeno per una dozzina d'anni, salvi i colpi di coda, sulla latitanza quasi decennale del capo Moretti, su via Fani, sul sequestro Moro, su ogni brigatista di rilievo, su tutto le zone d'ombra, le cose che non si sanno, e di cui ancora non si deve parlare, superano largamente le chiarezze dopo più di mezzo secolo. E non lo dice il cronista boomer, ossessionato, lo dicono 5 processi e almeno 3 commissioni d'inchiesta, contandoci anche quella sulla P2. Il risultato è che uno come Fiore passa in fama di brigante romantico, e i maturandi, quando non fanno scena muta, confondono le Brigate Rosse con la mafia cui addossano la responsabilità di via Fani, dell'eliminazione annunciata e largamente annunciata di Aldo Moro.