A Milano il Comune sotto inchiesta per le "mani sulla città", ma la responsabilità del tradimento è politica e civile
La Milano socialista, novecentesca non esiste più: oggi è un coacervo di forze in perenne lotta fra loro, distruttive e a volte criminali, dove vivono solo gli ultraricchi e gli ultrabalordi
A Milano sotto inchiesta l'intero settore edilizio del Comune a partire dal sindaco Sala e c'è chi mormora che il PD lo abbia voluto bruciare, secondo pratica da Politburo, essendosi fatto troppo intraprendente. In attesa di conoscere le reali malefatte dei funzionari pubblici, con questa magistratura niente è mai sicuro, possiamo azzardare qualche considerazione a margine, di puro merito e metodo. Dato per scontato che la riqualificazione continua di una metropoli europea come Milano fatalmente scatena la mangiatoia continua, va pur detto, anche se ai legalitari moralisti non piace, che bloccare tutto anche per minuzie o per quell'amor di legalismo moralistico equivale a uccidere una città europea che vive del suo perenne ridefinirsi. Poi, non ha torto il mio amico Giulio Cainarca, direttore di Radio Libertà, quando osserva che la riqualificazione o, più pomposamente, rigenerazione urbana, affidata all'assessore Tancredi che è il primo straccio a volare, di Milano fa pena: una londrinizzazione o dubaizzazione che ha poco da spartire con una metropoli di radici, di sensibilità socialista, popolare. Ma quanto è rimasto della Milano socialista novecentesca, dei Martinitt da cui usciva il cumenda Rizzoli destinato a impero editoriale? E non da oggi, dal gran sacco che non ha una data precisa e che comunque esplode nella Milano diversamente socialista “da bere”, quella degli stilisti, degli architetti, dei grandi ladri a tutto tondo.
La Milano riqualificata o rigenerata ha una sensibilità post socialista ma pur sempre di sinistra, la sinistra piddina dei bon vivant che si ritrova nelle concezioni dell'archistar Boeri; è una città che attira capitali, assorbe miliardi e miliardari dalla Cina, dagli scieicchi e i sultani e questi naturalmente impongono i loro gusti, le loro aspettative. Ne deriva una megalopoli effettivamente senza anima, di un turismo senza passione e senza attenzione, come un colossale dormitorio di lusso, brutalmente polarizzata: da una parte i miliardari nelle loro enclave, dall'altra i balordi, i maranza, i tagliagole che minacciano le enclave dei ricchi: in mezzo la classe media che esiste sempre meno e comunque vaga allo sbando, senza prospettive e senza protezioni, “non trova cane che gli abbai” e sa che ogni volta che esce di casa rischia di non tornarci o di tornarci ammaccata, violata; e anche questa, non solo la dovuta cautela per iniziative di una magistratura della quale è sempre opportuno dubitare, è la ragione per cui, a parte qualche ossesso di dubbia fede, la croce addosso al sindaco fauno non la getta nessuno: i grandi affari coinvolgono in grande, riguardano tutti, in Comune come in Regione, da destra a sinistra e la rigenerazione dei ricchi è responsabilità comune. Poi si capisce che uno come La Russa, che a Milano signoreggia, chieda le dimissioni per meglio subentrare col suo clan, ma le chiede per ragioni politiche, non giudiziarie e fa in modo che si sappia, si dica.
Che cosa è questa Milano senza anima? Una città senza anima e senza memoria, un coacervo di forze distruttive in lotta fra di loro dove salgono come un'erba cattiva i grattacieli cinesi o di Dubai o stile Manhattan che fanno risparmiare spazio orizzontale. Ma a quale prezzo? Non ha torto, anzi ha tutte le ragioni Mario Giordano quando denuncia “Una città che ha il record europeo per gli arrivi di miliardari (2.200 solo nel 2024), ma dove non si trovano più gli autisti di autobus e i poliziotti, perché con il loro stipen-dio a Milano non possono vivere. Una città dove per vivere bisogna poter spendere 3.600 euro al mese, escluso l’affitto. Una città dove, ne-gli ultimi dieci anni, gli affitti sono cresciuti del 43 per cento, i prezzi delle case del 40 per cento, mentre il potere d’acquisto è salito appena del 5 per cento. Una città dove gli studentati sono diventati alberghi di lusso, mentre gli studenti non sanno dove andare a dormire. Una città dove le case popolari sono diventati grattacieli per i ricchi, mentre chi non è ricco non sa dove andare ad abitare”. Poi si può osservare che a una Procura non spettano le valutazioni estetiche o sociali, ma la situazione di cui parla Giordano non è smentibile e dice di una città senza più vocazione, di un centro avanzato dell'industria trainante, del commercio, del terziario detto avanzato che non c'è quasi più, sostituito dall'intelligenza artificale. Industria e commercio però resistono, corso Buenos Aires la via dello shopping più lunga d'Europa, 3 chilometri di negozi in ciascun senso, anche se oggi sventrata dalle velleitarie piste ciclabili preferite dai raider motorizzati. A che serve una città, una metropoli? Storicamente, in senso novecentesco, a civilizzare e questo ha fatto Milano per un secolo, prima con le grandi migrazioni dal contado, poi nel dopoguerra assorbendo quelle del sud, coi “terroni” che ci mettevano poco ad omogeneizzarsi, che se tornavano al paese in agosto per le ferie fingevano commozione ma dopo una settimana erano già stufi, il richiamo della foresta, della giungla urbana coi suoi nervosismi e i suoi ottimismi drogati li raggiungeva, li tormentava.
Oggi, non da oggi, Milano è satura, non riesce più ad assorbire niente e nessuno, salvo i miliardari. Il suo milione e mezzo di residenti, che ogni giorno si gonfia in un formicaio doppio, tre milioni di gente in pena, di prede e predatori, di disgraziati che sbarcano il lunario senza riuscirci, vagola si direbbe senza meta e comunque senza scopo, senza senso. Tutti che corrono, se no Milano non sarebbe Milano, perfino lungo le scale mobili della metropolitana ma se gli chiedi per dove ti guardano con certi occhi sgomenti e non rispondono. Oppure rispondono stravolti: ma che ne so. Milano sconta i suoi travasi. La gonfiano sempre più clandestini senza obblighi, che cacciano fuori i locali senza diritti, a sparpagliarsi nei dormitori della cintura dove però dormono male, come a Pioltello dove la locale madrassa determina, senza apparire, le sue leggi e i suoi Ramadan benedetti da Mattarella. Lo stile gangsteristico contagia, vedi l'ultima moda maranzesca di girare chiusi in macchina totalmene nudi eccetto un paio di braghini e il cappelletto griffato.
Ha senso rimpiangerla ancora come una città che non c'è più, un colossale grumo di furori e di disagi senza cuore e senza spazi, che diffonde inciviltà, spezzato tra la riccanza degli ultraprivilegiati e la disperazione degli sbandati? La solita Ilaria Salis delira di “manacce capitaliste” sulla città ma le manacce sono degli ztl che l'hanno votata, ereditieri in tutto simili a lei. Quando la giro, quando passo da Città Studi delle facoltà tecniche invase dagli accampamenti dei figli della buona borghesia Propal, non so se intenerirmi o disperarmi: ci manco da 40 anni e da 40 anni sogno di rientrarci ma non è facile anzi è impossibile: mi accontenterei di uno scantinato, ma un monolocale da 20 mq, le dimensioni di una stanza d'albergo singola, partono dai 180, 200mila euro, cifre folli anche sotto il cielo di Dubai. Oppure devi accontentarti della leggendaria via Cavezzali 11 dove c'è la concentrazione di ratti più densa d'Europa per metroquadro e appena metti la chiave nella porta ti sbudellano. Ammesso di trovarcela ancora, la porta. Sono quindici anni che questa via con addosso il fiato pesante e speziato di via Padova (dove stazionano negli androni i latinos e le gang africane munite di machete) attende una riqualificazione impossibile, perché la riqualificazione il Comune l'ha concepita per i ricchi; e il risanamento di via Cavezzali, 11 come di Ponte Lambro come di altre quindici o venti zone perdute della cinta urbana è diventato una storiella per cui ridere amaro, molto amaro. Una rigentrificazione dei maranza che dicono: Milano è roba nostra, Milano siamo noi. Roba loro e non passa giorno senza decine di agguati che solo in minima parte si vengono a sapere, solo se particolarmente cruenti come l'americano mezzo scannato da un commando marocchino sul treno Melegnano-Bovisa che coperto di sangue ripete “non voglio morire”. Un altro, un diciassettenne che aveva cercato di far fuori un coetaneo nel Ravennate, due giorni prima aveva colpito proprio a Milano, sempre col coltello. Ma lo lasciano sempre andare nella rassegnazione fatalistica di chi sa che la situazione è irreversibile. La gentrificazione africana dell'orrore e del terrore assume tratti lugubri e anche grotteschi. In giro con l'amico che mi porta in macchina, una domenica pomeriggio di giugno mi diverto a contare gli indigeni: ne troverò dieci, venti su cento, o decrepiti col cane o fanciulle che procedono a testa china, se incontrano un gruppo di maranza abbassano gli occhi sapendo che non conviene sfidarli. I maranza le guardano, ridono, le insultano, le minacciano. La temuta o auspicata sostituzione è cosa fatta, ma una città come Milano che ha rinunciato a “gentrificare” sul serio, per dire a civilizzare, ha perso la sua missione e la sua anima, è una città che non esiste più, un controsenso.
Il sindaco fauno che minimizza, parla di percezione e cita in continazione la figura allegorica del pizzaiolo egiziano, andrebbe forse processato su queste basi più che su presunte violazioni edilizie. Perché in dieci anni di potere ha finito di rendere una città a suo modo davvero inclusiva in una Geenna respingente da dove è facilissimo fuggire, o morire, ma impossibile rientrare. Una responsabilità politica, d'accordo, ma non solo politica perché da Milano, capitale non più morale d'Italia, si allargano a centri concentrici le tare di un Paese che non si tiene più insieme, che la propaganda da balconcino dei politici non salva, non aggiusta. Un Paese sempre meno libero, dove la burocrazia ha assunto toni moralistici e autoritari, vuole chiudere tutti dentro alla prima occasione, pretende di instillare abitudini e stili di vita, punta a rendere impossibili le necessità urbane, niente veicoli motorizzati, niente sigarette in giro. Ma il verde pubblico stenta e i trasporti, di tradizione leggendaria a Milano, arrancano, peggiorano, vengono anche quelli colonizzati dai maranza che dicono “è roba nostra e ne facciamo quel che vogliamo”. E nessuno sa e vuole contenerli.
A Milano regna l'arroganza e la maleducazione di chi non crede più in niente, non sente di appartenere a niente e che niente gli appartiene più, la legge dell'a chi tocca tocca, salvo per i miliardari da bosco verticale, ma presto toccherà anche a loro perché il magma criminale sale e nessuno lo argina. Poi si può discutere delle presunte mangiatoie nel settore urbanistico, ma a patto di sapere, di voler sapere che una città ridotta come Milano è invivibile in lungo e in largo, in verticale come rasoterra, che duecentomila euro per vivere barricati sottoterra sono una vergogna sociale senza innocenti e senza scusanti. E c'è di peggio, c'è che un simile modo di abitare la città si traduce in una morale fetente, miserabile, la morale dei privilegiati che sputano sui dannati e di questi ultimi che appena possono scannano i primi. Quaranta anni che sogno di tornarci, neanche io so più perché, forse perché custodisco la Milano popolare, di Lambrate evaporata, il quartiere effervescente di contraddizioni e di ridefinizioni, vere, reali, che nei Sessanta e nei Settanta ne facevano un posto meraviglioso. Il quartiere dove tutto si teneva con tutto, bottegai milanesi con inurbati marchigiani o siculi, borghesia nascente coi cub simpatizzanti delle BR, Brigate Rosse e neofascisti che ammazzavano i due del Leoncavallo, Fausto e Iaio, la criminalità comune ma feroce di Vallanzasca e i servizi segreti, quelli del nucleo scelto di Dalla Chiesa che lo lasciavano stare e se mai lo usavano per mettere il sale sulla coda ai terroristi di via Montenevoso, 8 che custodivano il memoriale Moro. Noi ragazzini ci crescevamo dentro e abbiamo per sempre contratto il virus della nostalgia, tutti, anche quelli che avrebbero fatto fortuna come la mia amica d'infanzia Eliana Bosatra, potente funzionaria della televisione. Avendo io chiesto ad una che credevo sincera, una della bolla immobiliare, di quelle che battono i circoletti per farsi accettare come nuova milanese, di trovarmi un buco come base per i miei affari meneghini, mi son sentito riferire che, essendo spiantato e malato, l'unica cosa cui potevo aspirare era un loculo al cimitero di Musocco. In affitto, naturalmente.