Il Denaro come Surrogato Affettivo, Parte 3 di 4; la Triade del Controllo: Moralismo, Perbenismo e Ambizione, quando il valore si perde nel prezzo e l’umano nel ruolo

Per chi ha conosciuto l’amore condizionato, il denaro può diventare una droga psichica: dà l’illusione del controllo, della visibilità, dell’invulnerabilità. Ma come ogni surrogato, non nutre: sazia solo temporaneamente, e lascia più vuoti di prima.

Il denaro è, per molti, ciò che la carezza non è mai stata. Un oggetto apparentemente neutro che, nella psiche, assume valenze affettive profonde. Non è solo una moneta di scambio: è il simbolo del riconoscimento, del valore e della sicurezza, del potere. Per chi ha conosciuto l’amore condizionato, il denaro può diventare una droga psichica: dà l’illusione del controllo, della visibilità, dell’invulnerabilità. Ma come ogni surrogato, non nutre: sazia solo temporaneamente, e lascia più vuoti di prima.

In termini psicoanalitici, potremmo dire che il denaro assume la funzione di un oggetto transizionale distorto: qualcosa che media tra il bisogno affettivo e la sua negazione. Sostituisce l’abbraccio con la carta di credito, la presenza con il possesso, il legame con la proprietà. Nei contesti familiari, questo meccanismo si manifesta nei genitori che “compensano” la loro assenza affettiva con regali costosi; nei partner che usano il denaro per controllare l’altro; negli individui che accumulano ricchezza non per progettare, ma per proteggersi.

La società contemporanea, con la sua narrazione iper-capitalistica, rafforza questa dinamica: chi ha denaro vale, chi non lo ha è invisibile. Il linguaggio stesso della realizzazione personale si è contaminato: si parla di “investire in sé stessi”, di “valorizzarsi”, di “essere appetibili sul mercato”. Persino l’identità viene trattata come un brand, una moneta da spendere in un’economia di attenzione. E in questo gioco, ciò che conta non è più chi siamo, ma quanto valiamo. O meglio: quanto ci valutano.

Clinicamente, vediamo sempre più spesso di pazienti afflitti da disturbi narcisistici mascherati, con quadri di dipendenza da successo e anestesia emotiva da iper-produttività. Persone che, private del loro status economico o sociale, collassano in crisi depressive profonde, perché la loro autostima non poggia su un senso di sé integrato, ma su un’immagine riflessa dallo sguardo altrui. Il denaro, per loro, è l’unico linguaggio in cui sentono di poter chiedere amore, rispetto, esistenza.

Questa dinamica ha anche effetti macro-sociali. Alimenta un modello economico e politico che favorisce l’individuo performante e marginalizza il fragile, l’incerto, il non conforme. L’ansia di “produttività” penetra nella scuola, nella sanità, persino nei servizi di cura, riducendo il valore umano a prestazione. In questo sistema, l’empatia diventa inefficiente, la lentezza è un difetto, il bisogno è una colpa.

Così, il denaro – nato per facilitare gli scambi – finisce per sostituire i legami. E le relazioni, svuotate della loro verità, diventano contratti impliciti, in cui si dà nella speranza di ricevere, si mostra nella speranza di essere amati, si accumula nella speranza di non essere più vulnerabili.
Ma la vulnerabilità non si estingue con il potere. Si nasconde. E quando riemerge – nella malattia, nella solitudine, nell’invecchiamento – si fa ancora più devastante.

Moralismo, Perbenismo, e Ambizione: la Triade del Controllo

In apparenza separati, moralismo, perbenismo e ambizione sembrano rispondere a logiche diverse: il primo si ammanta di valori; il secondo si rifugia nelle convenzioni; la terza si veste da progetto personale. Eppure, nella loro interazione, danno forma a un dispositivo di controllo capillare e profondamente interiorizzato, che regola comportamenti, modella desideri e normalizza esclusioni.

Questa triade si inserisce perfettamente in quella che, in ambito sociologico, potremmo definire una società del conformismo performante, in cui l’adesione a determinati standard morali e sociali non è richiesta esplicitamente, ma indotta attraverso un sistema di premi e punizioni sottili: approvazione sociale, status, visibilità. In tale contesto, l’ambizione smette di essere una libera scelta e diventa un obbligo implicito; il moralismo si traveste da responsabilità civica; il perbenismo assume il volto dell’adattamento strategico. Il dissenso, il dubbio, la vulnerabilità vengono marginalizzati come disfunzioni.

Dal punto di vista psicologico, questo produce personalità iper-adattate, che rinunciano al proprio sentire profondo per ottenere appartenenza. Si tratta di individui che interiorizzano precocemente il principio del “dover essere” a scapito del “poter esistere”: funzionano, ma non vivono. Raggiungono obiettivi, ma restano scollegati da sé stessi. Sono amati per la loro efficienza, ma non riconosciuti nella loro interezza. Questa dissociazione, a lungo andare, genera disagio psichico, ma anche alienazione sociale.

La triade moralismo-perbenismo-ambizione agisce anche come filtro invisibile nella costruzione delle narrative pubbliche: chi si discosta dai canoni – etici, estetici, produttivi – viene presentato come problematico, deviato o improduttivo. Si criminalizza la povertà, si medicalizza la sofferenza, si mercifica l’identità. Ogni anomalia viene ricondotta a un fallimento individuale, mai letta come spia di un malfunzionamento collettivo. Questo scarico sistemico della responsabilità sociale sull’individuo genera ciò che potremmo definire colpa strutturale: un senso di inadeguatezza latente, cronico, interiorizzato, che alimenta dipendenza dal sistema stesso che lo ha prodotto.

È il paradosso del controllo moderno: più ci si crede liberi, più si è vincolati da schemi rigidi e interiorizzati. Più si parla di merito, più si legittimano diseguaglianze. Più si esalta la libertà di scelta, più si nasconde la pressione sociale a scegliere ciò che è conforme. La soggettività, in questo contesto, viene colonizzata da ideali irraggiungibili: perfezione fisica, successo economico, rettitudine morale. E chi non si adegua, chi fallisce, chi si sottrae, viene silenziosamente escluso.

Nel lavoro clinico, questo si manifesta con crescente frequenza in sindromi da burnout, attacchi di panico, dipendenze affettive e comportamentali, disturbi dell’identità. Non è più l’evento traumatico isolato a generare sofferenza, ma l’ambiente stesso, normalizzato e invisibilmente tossico. Le nuove patologie dell’anima non derivano dall’eccesso di libertà, come certi moralisti amano sostenere, ma dalla perdita di autenticità. Dalla costrizione a vivere ruoli, identità e obiettivi imposti. Dalla mancanza di uno spazio psichico dove poter semplicemente essere.

Ristabilire una cultura del sé autentico significa allora destrutturare la triade. Significa educare al dubbio, alla lentezza, alla complessità. Significa insegnare che il valore umano non è una prestazione, che la bontà non è una maschera sociale, che la libertà non è il diritto di giudicare, ma la capacità di accogliere. Solo così potremo fondare una nuova etica: non più del dover essere, ma dell’esserci davvero.

di Edoardo Trifiró, Psicologo e Consulente in sessuologia