Appello ai Governi: Utopia necessitata, Parte 2 di 4: l'Etica Smarrita, la differenza con il moralismo, la prima interroga, il secondo condanna

C’è una differenza radicale tra etica e moralismo: la prima nasce dalla consapevolezza della complessità umana, la seconda dall’ansia di controllo

C’è una differenza radicale tra etica e moralismo: la prima nasce dalla consapevolezza della complessità umana, la seconda dall’ansia di controllo. L’etica interroga, il moralismo condanna. L’etica si assume la responsabilità della relazione, mentre il moralismo si erge a giudice, spesso cieco di fronte alle conseguenze delle sue sentenze.

Dal punto di vista psicodinamico, il moralismo può essere letto come l’espressione di un super-io ipertrofico, un’istanza interiore che, invece di orientare l’individuo verso scelte coerenti con i propri valori profondi, lo costringe a conformarsi a ideali esterni e rigidi, non negoziabili, spesso interiorizzati in maniera coercitiva.

Il moralista – che sia istituzionale o virtuale, di governo o di tastiera – non è mai mosso da reale compassione. È mosso piuttosto da un bisogno inconscio di rassicurazione, che ottiene solo delimitando ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, chi è degno da chi non lo è. In questo modo, l’esclusione diventa il prezzo pagato per l’illusione dell’ordine.

Il perbenismo, affine ma distinto, agisce invece in maniera più sottile. Non predica, ma giudica in silenzio. Non urla, ma allude. Si veste di buone maniere, si ammanta di rispetto delle regole, si compiace della propria educazione sociale e non giudica mai apertamente. La sua raffinata crudeltà si nasconde dietro l’apparenza della gentilezza, perché non colpisce apertamente, ma lascia che l’altro si autoescluda, colpito da un senso di inadeguatezza che viene solo suggerito, mai dichiarato.

Il risultato, in entrambi i casi, è una forma di malvagità inconsapevole: un male che non si riconosce come tale, ma che lascia dietro di sé sofferenze silenziose, identità fratturate, colpe interiorizzate. Non un male volontario, non una scelta sadica, ma qualcosa di più inquietante: un danno che si compie nella convinzione di essere nel giusto. È una dinamica osservata in ambito clinico, soprattutto nei contesti familiari e scolastici, dove la rigidità morale di un genitore o di un educatore, pur animata da buone intenzioni, può compromettere profondamente lo sviluppo dell’identità del bambino, alimentando vissuti di colpa, vergogna e non appartenenza.

L’esclusione sistemica generata dal moralismo istituzionale si riflette in scelte politiche che negano diritti fondamentali in nome di una “morale superiore”. È qui che il confine tra giustizia e potere si fa sottile, e la legge rischia di diventare uno strumento di oppressione più che di equità. L’imposizione di un’idea univoca di “bene” diventa così violenza simbolica, soprattutto quando si abbatte su individui già vulnerabili: donne, disabili, persone in stato terminale, minori non accompagnati, soggetti LGBTQ+.

Quando un pensiero ideologico pretende di incarnare l’etica, ciò che si ottiene non è l’ordine ma la colpa. Non il rispetto della vita, ma la sua umiliazione. E ciò che è peggio, questo processo avviene senza che i suoi promotori se ne rendano conto: il male, qui, non ha il volto della crudeltà, ma quello della convinzione. Non grida, non picchia, non sporca. Ma agisce. E lascia dietro di sé solitudini devastanti, sofferenze mute, vite spezzate.

Vuota ambizione

Non tutta l’ambizione è patologica, ma quando essa nasce non da una visione chiara di sé e dei propri talenti, bensì da un vuoto identitario, da una ferita antica e precoce non elaborata che il soggetto cerca di compensare con il successo, essa cessa di essere una spinta evolutiva e diventa un’ossessione compensatoria. Un travestimento del dolore. Una maschera che cerca applausi non per brillare, ma per sopravvivere.

Molte forme esasperate di ambizione affondano le loro radici in un’identità fragile, spesso costruita su un attaccamento insicuro, dove il riconoscimento affettivo non è stato gratuito, ma condizionato. In questi casi, il bambino ha imparato molto presto che “vale” solo se eccelle, se si distingue, se è conforme alle aspettative altrui.

Questo crea una scissione profonda tra il sé autentico e il sé adattato: il primo viene rimosso, il secondo diventa la vetrina esistenziale. Ma dietro quella vetrina, spesso, c’è il buio e il bambino diventa un adulto che non può fermarsi, che non può fallire, che non può chiedere.

Chi persegue il successo ad ogni costo non sempre lo fa per esprimere un potenziale: talvolta lo fa per non sentire la propria inadeguatezza, per cancellare l’umiliazione subita, per trasformare in potere la ferita del disamore. In questa spirale, l’ambizione smette di essere un progetto e si trasforma in una coazione a ripetere. Il successo, così, diventa un surrogato di riconoscimento, e il denaro una droga emozionale. Non ci si arricchisce per espandere il proprio mondo, ma per anestetizzare il proprio vuoto.

È il paradosso dei bambini feriti che diventano adulti vincenti, ma internamente desertificati. Quelli che da bullizzati diventano bulli. Che da esclusi, una volta ottenuto il potere, escludono a loro volta. Questa metamorfosi non è il frutto di una cattiveria deliberata, ma di una dinamica psichica difensiva: l’identificazione con l’aggressore. Un meccanismo inconscio attraverso cui il soggetto, per non rivivere l’impotenza della vittima, assume i tratti del carnefice. E, inconsapevolmente, perpetua il trauma.

La nostra società, che premia la performance, l’apparenza e l’efficienza, è l’habitat ideale per queste forme di ambizione malata. Essa non interroga le motivazioni profonde, non ascolta i vuoti interiori: li monetizza. Trasforma il disagio in carriera, la sofferenza in immagine vincente, l’irrisolto in “determinazione”. Così facendo, celebra individui che sono, in realtà, prigionieri del proprio passato, e che scaricano sulla collettività il peso delle loro ferite non elaborate.

In ambito clinico, questo si traduce spesso in forme di iper-adattamento, dissociazione emotiva, dipendenza da validazione esterna, disturbi da disregolazione narcisistica. L’individuo appare brillante, competente, perfettamente integrato. Ma dentro, il senso di vuoto persiste. E più si accumulano successi esteriori, più diventa difficile ammettere l’infelicità. La trappola dell’ambizione è proprio questa: più funziona socialmente, più isola interiormente.

E in questo isolamento si annida il rischio più grande: quello di perdere il contatto con la propria umanità, di confondere l’autorealizzazione con il controllo, la forza con la negazione del bisogno, la libertà con il dominio. A quel punto, l’ambizione non costruisce più: divora.

di Edoardo Trifiró, Psicologo e Consulente in sessuologia