De Maria, permessi premio e tragedie annunciate: il lato oscuro del reinserimento, percorso nobile ma che ha bisogno di senso del limite

Naturalmente, qui è necessario partire da un assunto: credere o meno nella riabilitazione.

È salito sulle terrazze del Duomo di Milano, indisturbato, pochi minuti prima di togliersi la vita. Si chiamava Emanuele De Maria e non avrebbe dovuto essere lì. Avrebbe dovuto trovarsi nel suo posto di lavoro, presso l’Hotel Berna, quattro stelle a due passi dalla Stazione Centrale. Ci era stato assegnato con un permesso di lavoro esterno, nonostante una condanna definitiva a 14 anni per l’omicidio di Oumaima, una giovane tunisina uccisa nel 2016 in un hotel di Castel Volturno.

Era lo stesso uomo che, con occhi grandi e timorosi, raccontava sei mesi fa alle telecamere di Mediaset di quel lavoro con fare orgoglioso, tessendo le lodi del carcere di Bollate e parlando di riappropriazione della propria dignità.

Socialmente, per un detenuto riaffermarsi nella vita quotidiana è un affare complicato. Se non ci fossero incentivi fiscali convenienti, nessuno lo assumerebbe. Per cui, la base normativa di questo concetto è proprio la Legge Smuraglia: un’azienda può ottenere lo sgravio totale dei contributi previdenziali e assistenziali per 18 mesi se assume un detenuto, anche in regime di semilibertà o con permesso di lavoro esterno. A questo calcolo bisogna aggiungere tutta una serie di fondi regionali e bandi convenzionati.

Naturalmente, qui è necessario partire da un assunto: credere o meno nella riabilitazione.

L’errore sarebbe ragionare per assolutismi, dunque da un estremo all’altro. Se il sistema, concettualmente, ha ragioni in essere comprensibili, nell’atto pratico rischia di scadere in sbavature critiche che, come abbiamo visto, producono effetti drammatici nella società.

Eppure, al netto del carattere prettamente normativo, la cronaca ha raccontato altro. Ha raccontato che De Maria, durante l’orario di lavoro, ha accoltellato un collega barista (miracolosamente sopravvissuto) e che, poche ore dopo, è stato ritrovato il corpo senza vita di un’altra dipendente dell’albergo, Chamila, con cui l’uomo pare avesse stretto un legame. Infine, la fuga in pieno centro e il suicidio.

La domanda, a questo punto, è inevitabile: com’è stato possibile?

La risposta va cercata nel meccanismo dei permessi di lavoro per i detenuti, regolato dall’articolo 21 dell’Ordinamento Penitenziario. Una norma pensata con finalità rieducative, che consente ad alcuni condannati di lavorare all’esterno del carcere per favorirne il reinserimento sociale. L’idea è che il lavoro possa diventare strumento di cambiamento e che la detenzione, se chiusa in se stessa, non porti ad alcuna trasformazione reale.

Ma tra l’ideale e la prassi c’è spesso un abisso. Per ottenere il permesso, il detenuto deve aver tenuto una condotta regolare, essere ritenuto non pericoloso e ricevere il nulla osta del magistrato di sorveglianza. In teoria, una procedura rigorosa. In pratica, però, tutto ruota attorno a valutazioni soggettive, relazioni degli operatori carcerari e a un sistema di fiducia che può rivelarsi tragicamente ingenuo.

De Maria non era un ladro redento. Era un uomo che aveva tolto la vita a una giovane donna, e che aveva avuto accesso a un ambiente lavorativo normale, con clienti ignari, colleghe giovani e contatti diretti. Qualcuno, in un ufficio, ha deciso che poteva farlo.

Il caso De Maria non è isolato e, per certi versi, non è altro che la punta dell’iceberg di scie di cronaca difficili. Pensiamo ad Angelo Izzo, il “mostro del Circeo”, condannato per aver stuprato e torturato Donatella Colasanti e Rosaria Lopez (massacrando fino alla morte quest’ultima). Nel 2005, Izzo — sempre secondo la logica dei permessi premio —, nello stato di semilibertà, uccise Maria Carmela Linciano e Valentina Maiorano, madre e figlia, strangolandole. Il tutto portò a un patetico rimbalzo di responsabilità tra i tribunali di sorveglianza di Campobasso e Palermo, visto che a quel punto nessuno dei due voleva assumersi la responsabilità della scelta.

Ebbene, naturalmente il menzionato caso di cronaca appartiene a una categoria criminale completamente diversa da quella di De Maria, ma è necessario citarlo perché fa parte dei buchi del sistema. Buchi che rendono possibile che una persona come Izzo, che si è macchiata di un crimine efferato che ancora oggi fa rabbrividire la pelle, abbia potuto usufruire di permessi che, al contrario, lo hanno portato ancora ad ammazzare.

Figurati, allora, “uno come De Maria”.

Di esempi, la cronaca nera è piena. E, quasi come un automatismo, le giustificazioni sono sempre le stesse: la riabilitazione.

Quello che però sfugge è quando la riabilitazione possa essere effettivamente un processo funzionante e privo di rischi. Perché, in via contraria, ciò che si sta apertamente facendo è rendere la società civile una sorta di laboratorio in cui, con poca grazia verso le libertà altrui, accettiamo che possa, ogni tanto, verificarsi qualche “incidente”. E poco conta se quest’incidente ha il prezzo di una o più vite.

Non possiamo escludere a priori la possibilità di riabilitazione. Sia chiaro. Chi ruba, ad esempio, per fame e povertà, ha almeno in via apparente più probabilità di essere reintegrato con successo nella società rispetto a un omicida che ha tolto la vita a una donna perché incapace di accettare un rifiuto.

Non a caso, De Maria era finito in prigione proprio per aver ucciso una ragazza in un albergo. E, giusto pochi anni dopo, abbiamo permesso che lo stesso tipo di crimine si ripetesse ancora una volta.

Perché, in fondo, ciò che accade è questo: si trasforma la società civile in un laboratorio sperimentale. Si scommette sulla possibilità di recupero, senza adeguati strumenti di verifica. Si accetta il rischio, ma lo si scarica sulle spalle di chi non ha scelto, né votato, né approvato.

A furia di concentrarci sui diritti di chi ha sbagliato, rischiamo di dimenticare quelli di chi non ha mai infranto la legge, di chi lavora, dorme in hotel, prende un treno, entra in un edificio pubblico. Di chi, banalmente, vuole vivere senza essere coinvolto in una tragedia che qualcun altro ha scelto.

La riabilitazione è un percorso nobile. Ma, come ogni percorso, ha bisogno di senso del limite. Un buon sistema non è quello che perdona tutto, ma quello che sa distinguere. E che, quando sbaglia, ha il coraggio di correggersi. Prima che sia troppo tardi.

di Vanessa Combattelli