Il Papa del futuro sarà ibrido? Un messaggio per il nuovo Papa, psicologia, sessualità e fede: una sfida all’antropologia tradizionale, il desiderio salverà la Chiesa

Un’analisi psicologica e culturale che invita a ripensare l’umano nel tempo del postumanesimo, delle tecnologie e delle identità fluide. Tra corpi, desideri e relazioni, una riflessione su come la Chiesa – e la società – possano abitare il cambiamento senza perderne il senso profondo.

Viviamo in un tempo in cui il concetto di umano è radicalmente in trasformazione. La figura del “Papa del futuro” — che qui propongo come metafora di una metamorfosi, più che come previsione — può aiutarci a leggere questa transizione. Il titolo può sembrare provocatorio, ma ciò che intendo evocare è una figura capace di abitare le contraddizioni del nostro tempo: un Papa ibrido, relazionale, incarnato, capace di raccogliere la complessità e offrirle un linguaggio nuovo, più umano, più vicino alla realtà.

L’ibridazione non è una perdita di identità, ma un’apertura. Viviamo in un’epoca postumanista, che mette in discussione l’immagine dell’uomo come soggetto razionale, autonomo e dominante. L’umano si riscrive come fragile, relazionale, digitale, sempre più intrecciato con algoritmi, biotecnologie e intelligenze artificiali. Ma questa trasformazione non è neutra: porta con sé il rischio di una marginalizzazione dell’umano, dove il corpo diventa piattaforma, la mente software, la relazione un’interfaccia.

Il postumanesimo, figlio critico dell’Illuminismo, eredita la sua tensione razionale ma ne decostruisce i presupposti: l’antropocentrismo, i dualismi mente/corpo e natura/cultura, l’identità come dato rigido e normativo. In questo scenario, il corpo e la sessualità — da sempre territori di negoziazione tra libertà e controllo — diventano luoghi centrali del dibattito.

Il biopotere e l’ideologia del potenziamento promettono un’umanità più performante. Ma a quale prezzo? Rischiamo di costruire soggetti più soli, più medicalizzati, più manipolabili. La libertà viene declinata come capacità illimitata di scelta, svuotata però della sua dimensione etica e relazionale. Il corpo, anziché tempio dello spirito, diventa una macchina da correggere, modificare, perfezionare.

Eppure, è proprio nella corporeità che si gioca la nostra umanità. La sessualità, l’identità di genere, il desiderio — tutte dimensioni troppo spesso giudicate, normate o silenziate — richiedono un nuovo sguardo. Il Papa del futuro potrebbe essere colui che saprà parlare di sessualità con un linguaggio meno moralista, più incarnato e vicino alla realtà delle persone. Non si tratta di assecondare mode culturali, ma di restituire dignità a percorsi identitari complessi, non lineari, che attraversano biologia, vissuti, traumi, cultura e relazioni.

Anche la psicologia è chiamata a una riformulazione profonda. Storicamente pensata come disciplina di supporto all’adattamento sociale, oggi deve diventare critica culturale e strumento di ristrutturazione antropologica. Non basta più aiutare l’individuo a “funzionare” nel sistema: occorre accompagnarlo nella fioritura della propria soggettività, riconoscendo le sue fragilità, le sue configurazioni non canoniche, i suoi desideri inespressi. Il modello nosografico cede il passo a un approccio intersezionale, narrativo, che riconosce la pluralità come risorsa e non come deviazione.

La crisi che stiamo vivendo non è solo ecologica o economica, ma identitaria. È il riflesso di un’umanità che teme il diverso, la complessità, il cambiamento. L’identità resta ancorata a costrutti illuministi mai realmente ridefiniti, ormai inadeguati a leggere un mondo fluido e interconnesso.

È paradossale: le psicoterapie sono orientate al cambiamento per aiutare chi resta imprigionato in dinamiche disfunzionali — se non patologiche — a fare esperienza di trasformazioni positive. Eppure, è la società stessa ad apparire stantia, rigida, cronica. La nostra società sembra paralizzata, impaurita da ciò che il cambiamento implica — per cui mi trovo a denunciare un contesto sociale affetto da dipendenza strutturale, incapace di riconoscere il proprio stato, come un tossicodipendente che rifiuta l’aiuto. Continuiamo a inciampare su una strada disseminata di crepe, che rattoppiamo senza mai ripensare davvero.

Anche la Chiesa, e con essa la figura del Papa, è chiamata a confrontarsi con questa trasformazione. La tradizione cristiana ha sempre considerato l’essere umano come imago Dei, definito non dalla prestazione ma dalla relazione. Eppure, in un’epoca segnata da tecnocrazie e algoritmi, questa visione rischia di essere oscurata. Il Papa ibrido del futuro dovrà abitare questa tensione: non come custode nostalgico del passato, né come profeta ingenuo del progresso, ma come testimone dell’umano integrale.

Una Chiesa che non rifiuta la scienza, ma ne denuncia ogni deriva tecnocratica. Che non impone dottrine, ma ascolta storie. Che non stigmatizza la sessualità, ma la riconosce come parte essenziale della condizione umana. Che sa che famiglia non è solo quella biologica, ma anche quella elettiva, queer, comunitaria, affettiva. Michela Murgia ci ha ricordato che “siamo famiglie in quanto ci prendiamo cura”: un principio che dovrebbe orientare tanto la teologia quanto le politiche sociali.

Perché se la Chiesa continuerà a rimuovere la pulsione primigena del desiderio, si troverà costantemente a gestire le sue deformazioni: scandali, repressioni, derive. Il sesso vende, si moltiplica, ci attraversa. Se non cominciamo ad affiancarlo a un dialogo aperto, informato e consapevole, continueremo a rimuovere la realtà stessa della nostra specie, fingendo pudori ipocriti, rischiando di perpetuare una cultura dell’occultamento, della colpa e della vergogna.

Normalizzare il linguaggio del desiderio, anche nei suoi aspetti meno discussi ma comunque presenti, è un atto di responsabilità. Altrimenti continueremo a fare come gli struzzi: testa nella sabbia, mentre intorno tutto implode.

È tempo di immaginare nuove istituzioni fondate sulla cura, sull’educazione permanente, sull’ecologia delle relazioni e sulla libertà delle soggettività plurali. Anche il lavoro va ripensato: non come obbligo e dovere produttivo, ma come espressione del Sé. Una società sana valorizza il contributo invisibile: l’ascolto, la cura, la riflessione e l’affettività sono risorse centrali. La salute mentale e il benessere relazionale devono entrare nell’agenda politica come priorità.

E allora sì, il Papa del futuro sarà ibrido. Non perché mutato artificialmente, ma perché capace di tenere insieme tradizione e profezia, spiritualità e incarnazione, parola e ascolto. Sarà colui che, di fronte alla promessa della macchina perfetta, ricorderà che ogni corpo — anche imperfetto, fragile, queer, segnato — è luogo di salvezza. Che l’umano non va superato, ma custodito. Che la vulnerabilità non è debolezza, ma condizione della relazione.

Chi la pensa diversamente rischia di replicare, anche inconsapevolmente, quella mentalità che ha storicamente tentato di stabilire gerarchie tra corpi e tra esistenze. Non è un caso che il pensiero di Nietzsche fosse strumentalizzato dai totalitarismi e oggetto di interpretazioni riduttive. Eppure, il filosofo tedesco non teorizzava un “superuomo” forte nel dominio, ma un individuo capace di superare i valori imposti, di interrogare la stabilità morale e culturale della propria epoca. Un pensiero inquietante, perché rompe certezze, ma necessario per leggere la complessità dell’essere umano.

Oggi, però, è fondamentale distinguere tra emancipazione e esaltazione dell’ego. Basta confondere l’individualismo con la libertà: perché alla fine dei conti, senza una forma — anche inconsapevole — di collaborazione, non saremmo riusciti a coabitare in città densamente popolate. La libertà non si gioca nell’isolamento, ma nella capacità di relazionarci senza dominare.

Parlare oggi di sessualità, di corpo e di desiderio non è un compito marginale per la Chiesa: è entrare nel cuore della domanda contemporanea su cosa significhi essere umani. Proprio lì, dove la tecnica pretende di riscrivere l’umano, le scienze umane, la psicologia e la teologia possono offrire parole nuove: incarnate, liberanti, relazionali.

Diversi ma simili: questa non è solo una constatazione, ma una promessa. Che insieme possiamo diventare qualcosa di più della somma delle nostre parti. Che non siamo macchine, ma esseri fatti per la relazione. E che la salvezza, oggi, ha il volto di chi sa accogliere l’altro, e non quello di chi lo normalizza.

Oltre l’apparenza.

di Edoardo Trifirò, psicologo clinico e consulente in sessuologia