Ci indigniamo per le scommesse dei calciatori e ci siamo dimenticati del business più grande attorno al pallone: il denaro prima di tutto

Il calcio sta sullo sfondo, perché è un pretesto.

Viene male alla testa a pensare a come si siano rovinati, alla facilità con cui maneggiano soldi e ne parlano. Ne avrebbero tanti in tasca, ma nemmeno quei tanti servono più a coprire i buchi delle scommesse perse. Al di là dei nomi ormai noti, è una generazione a specchiarsi dentro quelle chat: possono essere i giovani calciatori che scommettono online come può essere il rampollo che alla Gintoneria di Lacerenza brucia un capitale in droga, donne e alcol. E c’è il solito giro di squali che gira attorno. Nulla di nuovo, dicono alcuni. Sì, squali e prede fanno parte di un ecosistema criminale che non nasce oggi. Quel che cambia è il valore monetario che sta attorno, le cifre del baraccone calcio.

Ieri e oggi. Impossibile non cadere nel vizio della memoria e - dico - sarebbe persino sbagliato non farlo: perché infatti non si dovremmo ripescare quelle immagini di calcio che riportano agli anni Settanta, Ottanta, Novanta? Perché non si dovrebbero accostare la foto dei ragazzini Under 21 con le fiches in mano che giocano a poker e quella partita giocata in un aereo “mundial” come se Dino, Franco, Enzo e il Presidente fossero in un circolo del Friuli.

C’era stato lo scandalo del calcio scommesse anche negli anni Ottanta”, dicono. Certo, la tentazione non ha il brevetto di questi tempi: gli scandali e persino i fondi neri hanno segnato anche il passato, oltre che il presente. Cosa c’è allora di maledettamente diverso? Il volume di denaro che il pallone fa girare: non può essere che tutti valgano quelle cifre gigantesche. E poi c’è l’opportunità che il calcio consente: azionare una leva di potere, di consenso, di comunicazione, di relazioni.

Negli anni Ottanta dicevamo di ospitare il campionato più bello del mondo, qui venivano a giocare i campioni più blasonati: Maradona, Platini, Zico, Falcao, Socrates, Gullit, Van Basten, Rumenigge, Boniek, Edinho, Careca, Junior e la lista potrebbe andare avanti con altri nomi di prestigio. Venivano i campioni, portati da presidenti che esistevano, che avevano un nome e un cognome. Non erano fondi finanziari. Erano presidenti italiani, presidenti figli della provincia. Piccoli imprenditori con quella passione travolgente.

Giravano soldi, ma non erano i fantamiliardi di Paperon de’ Paperoni. Erano soldi importanti che già proiettavano i calciatori in una dimensione straordinaria: successo e danée. Ma siamo lontani dai soldi che girano oggi per tutti. Sembrano soldi di un monopoli pallonaro che genera e divora capitali, con velocità impressionante. Non bastano mai. Si sforano i tetti di ingaggio, si infrangono le regole. Si comprano campioni e mezzi campioni e poi si resta a bocca asciutta, come capita al Psg.

Il calcio sta sullo sfondo, perché è un pretesto. L’ultimo mondiale si è giocato in Qatar, un’operazione politica (nel senso più largo) per centrare la quale il mondo ha digerito tutto: le voci di corruzioni, gli stadi costruiti a tempo di record e a colpi di morti sul lavoro. L’epopea calcistica, ripeto, è la prestazione necessaria per far vivere il circo. L’ultima foto che quel mondiale ci consegna è un Leo Messi avvolto da una tunica nera, il bisht. La foto ufficiale è con quell’indumento tipicamente maschile indosso, poggiato sulle spalle a forza dall’emiro del Qatar come a sottolineare che ha pagato tutto lui e quindi le regole le detta lui. La “griffe” emiratina doveva coprire la maglia della nazionale, la maglia di un popolo e di una comunità. Maradona non lo avrebbe permesso, a costo di pagarla cara ancora una volta.

Ma Maradona fu portato in Italia, a Napoli, da Ferlaino e allenato da un mister che stava sempre in tuta, non da un presidente emiro del Qatar. Maradona non avrebbe mai coperto la maglia della sua Argentina, della sua gente.

di Gianluigi Paragone