Genova, avvocato genovese finisce in carcere, deve scontare quasi 6 anni per falso, truffa e altri reati
In un caso il legale avrebbe fabbricato un ricorso e poi un sentenza falsa per farsi pagare da un cliente. Ora è detenuto nel penitenziario di Chiavari
Si è consegnato spontaneamente nel carcere di Chiavari dopo che per lui il cumulo di condanne raggiunte avrebbe portato a breve a un’ordine di carcerazione da parte della Procura generale di Genova. A finire in cella è l’avvocato genovese Giampaolo Naronte, 59 anni, condannato in via definitiva per diversi reati: dal falso alla truffa, dall’esercizio abusivo della professione alla violazione degli obblighi familiari per non aver pagato l’assegno di mantenimento ai figli. In totale le condanne accumulate ammontano a 5 anni e 8 mesi di reclusione.
Il caso sanzionato con maggiore severità dai magistrati, e decisivo nel determinare l’arresto, è quello che ha svelato la sentenza taroccata. E per orientarsi nella vicenda - ritenuta dai giudici «emblematica» d’un modus operandi «seriale» - occorre ripartire dal settembre 2018. In quel periodo un cliente del professionista, trentatreenne, presenta una denuncia alla Procura, nella quale descrive il suo contenzioso con il datore di lavoro, una cooperativa di facchinaggio. Per ottenere assistenza si rivolge a una onlus cattolica con sede nel centro di Genova, che di fatto farà da intermediaria con Naronte, ma viene ritenuta estranea alle contestazioni. «Lo incontrai - spiega nella prima segnalazione agli inquirenti la vittima - nella sede dell’associazione: mi prospettò la possibilità di agire contro la società per cui prestavo servizio sia per il licenziamento illegittimo, sia per quella che lui definì una forma di mobbing legata alle insalubri condizioni dell’ambiente lavorativo, e in generale per i comportamenti assunti dai soggetti sotto la cui direzione mi trovavo». È da quel momento, secondo il sostituto procuratore Filippo Givri titolare degli accertamenti, che si materializzano i depistaggi del legale. Il quale, insiste in primis il pubblico ministero nel formalizzare il capo d’imputazione, raggira il cliente innanzitutto «omettendo di depositare, una volta firmato il mandato, il ricorso dopo il tentativo di conciliazione». E davanti alle ripetute richieste del lavoratore di conoscere l’esito del procedimento «dapprima firmava la falsa attestazione di un assistente giudiziario sul deposito del ricorso», in seguito siglava «il falso provvedimento con cui il presidente della sezione lavoro del tribunale di Genova assegnava la causa a un giudice» e l’altrettanto fasullo carteggio «con cui il giudice designato fissava un’udienza per la discussione». Ancora: a valle di ulteriori richieste dell’assistito «formava la falsa sentenza apparentemente emessa dal giudice istruttore», in cui si facevano risultare la condanna della cooperativa e un risarcimento di oltre diecimila euro. Tutta carta straccia, hanno dimostrato le indagini, perché la causa di fatto non è mai partita e nessuno s’era pronunciato in senso favorevole al trentatreenne. Dopo l’iscrizione al registro degli indagati Giampaolo Naronte viene rinviato a giudizio e fra le prove sono acquisiti pure i messaggi WhatsApp con i quali aveva rincuorato il cliente. Spuntano altre vicende sospette delle quali è stato protagonista e gli stessi responsabili della onlus con cui collaborava si smarcano, sostenendo che in più occasioni avesse creato problemi. In primo grado prende 5 anni, il suo difensore riesce a limitare i danni in Appello e alla fine passano in giudicato - su quel caso specifico - 2 anni e 8 mesi. Ma sommati al resto delle pendenze generano un cumulo per il quale l’unico epilogo possibile è la cella.