Zombie quotidiani, mentre la società non li vuole vedere: "Perché l'hai fatto?". "Non so perché l'ho fatto". Ottimo, avanti il prossimo
Solo nelle ultime 24 ore uno di 19 anni cancella a forbiciate in faccia una coetanea, un altro di appena 15 anni fortemente sospettato di avere buttato dalla finestra una di 13. La logica non c'è, è sempre la stessa: "Non so che farci, avevo il disagio". E tutto si accetta.
La domanda è sempre la stessa, “perché l'ha fatto?”, e la risposta non c'è ovvero è fatta di cento risposte parziali, tutte fasulle, tutte per non rispondere. Risposte circolari, più deliranti della domanda. Perché il disagio. Perché la noia. Perché volevo capire cosa si prova. Perché volevo fare il rapper. Anche questo nuovo assassino, il meno che ventenne Jashandeep Badhan, amava farsi chiamare Deep, anzi Deep la Rue, come i balbettanti teorici della malavita, spacciatori e forti consumatori di sostanze che stordiscono. “Deep la Rue” non passerà alla storia per le sue filastrocche computerizzate ma perché ha fatto fuori una coetanea a forbiciate sul pianerottolo mentre lei cercava di coprirsi la faccia come in un film dell'orrore. E appena preso ha fornito la risposta dei matti alla domanda dei matti: “Non so perché l'ho fatto”.
Dicono gli amici di “Rue”: sapete, era pieno di droga e ne voleva ancora. E lo dicono con una normalità che fa spavento perché già nell'indifferenza, nella pretesa di motivare qualcosa di assurdo, di non spiegabile, di non accettabile. “Perché l'ha fatto?”. Perché era un “problematico” che non ne aveva mai abbastanza di droga e di soldi per comprarla, tormentava i suoi e quando era pieno, come dicono gli amici, diventava pericoloso. E uno così lo lasci libero? Una delle false risposte del genere consolatorio, che non consolano perché non spiegano niente, è che Jashandeep sedicente Deep è un importato, un “nuova generazione”: ma le origini asiatiche, indiane, qui non c'entrano niente, anzi forniscono conferma e desolata conferma: non esiste altro che questo consumismo del peggio che è davvero globalizzato e induce a totale uguaglianza di comportamenti da adolescenti diversissimi per cultura, censo, classe, provenienza. Ovvero ad agire da zombie, da mostri nella totale rassegnazione o indifferenza, cosa che non sfugge agli imbecilli “sociali” che vanno in galera, a rendergli omaggio in processione, per accaparrarseli. Ed è questa normalità dell'anormale, questo spiegare in modo anormale comportamenti anormali come fossero normali, è questo il male imbuto da cui non si esce al punto che si preferisce non affrontarlo: lo si lascia scorrere e, fin che si può, lo si tramuta in buon affare. Sta sorgendo un mercato editoriale, televisivo, spettacolare che dalla sociologia d'accatto scade nel morboso, nel gossip della ferocia, vanno riciclando anche le trucidazioni del Mostro di Firenze di quaranta anni fa.
Perché l'ha fatto? No, la domanda vera, giusta è “che cosa ha fatto?”. È penetrato come un ratto mannaro attraverso i garages comunicanti fino all'appartamento della vicina, l'ha investita a coltellate, l'ha finita a forbiciate in faccia. Ecco: ricostruita per quella che è, senza sprecare una parola, la faccenda ritrova tutti i suoi contorni di mostruosità, almeno per chi ha abbastanza anni per sconcertarsene. Per chi non vuole farsi chiamare “Deep la Rue”. Vi sembra umano tutto questo? Consueto ormai sì, ma ancora umano? Ecco, stabilito questo ci si può trastullare con le domande retoriche, “perché l'ha fatto”, e le risposte retoriche, le formule insulse che offrono risposte insulse, “Nessuno tocchi Caino”. Sì, ma Caino ha cancellato una vita di diciotto anni che programmava vacanze e speranze con un'amica nella quieta solitudine di un sabato notte. Così dunque si deve venire al mondo? Per farsi macellare a forbiciate in faccia appena maggiorenni, senza una ragione ovvero per le ragioni ignobili del rincoglionimento, del consumismo tossico, della furia rancorosa dell'ennesimo “vorrei ma non posso”, un emulo del peggio, un aspirante rapper che si effigia con la pistola in mano e il cannone in bocca? A cosa siano serviti i diciotto anni di Sara Centelleghe, che sognava di evadere dalla Bergamasca con l'amica, noi non sappiamo dire; sappiamo però che è orrenda la desolazione della sua fine senza un motivo plausibile, che non è accettabile l'epidemia di ragazzine e ragazzini fatti a pezzi, sfondati, sforbiciati come bambole di carta perché uno voleva vedere l'effetto che fa o sta incazzato perché non sfonda come finto artista. “Non so perché l'ho fatto”: la stessa cosa che dirà, confessando, il quindicenne appena fermato perché in sospetto di aver gettato dalla finestra la “fidanzatina” di due anni più giovane. L'età degli zombie si abbassa, l'impegno a non vedere a non capire si fa più serrato. Sarà anche come dice il sociologo Jonathan Haidt, “È perché gli eventi del mondo vengono improvvisamente pompati nelle menti dei ragazzi attraverso i loro cellulari, non come notizie, bensì attraverso dei post sui social in cui altri ragazzi esprimono le loro emozioni su un mondo che crolla, emozioni contagiose attraverso i social”. Per dire la fine della logica in luogo dell'istinto: l'analisi sarà pure raffinata, ma come rimedio non vale niente, i social che ottundono le menti sono il più formidabile veicolo di controllo e di guadagno, proibirli è inutile stante la regola “chi inventa la barca inventa il naufragio” e il naufragio globale è un costo accettabilissimo agli occhi del liberismo tecnologico che nasconde dietro i valori pretestuosi dell'inclusione e delle parità la sua avidità sconfinata.
Tutto sembra inutile, nascere, morire, il dolore di chi resta, le domande, le risposte. E non si può neanche più dire che uno così è un balordo, una testa di cazzo, che è odioso a prescindere con le sue pose, i suoi passamontagna, le catenazze, i cannoni che gli esplodono in bocca, perché subito partono le vestali del politicamente corretto che si risolve in una gigantesca lobotomia, nella rimozione forzata di ogni senso e ogni giustizia volta a impedire la comprensione. A forza di negarci la comprensione, siamo alla società degli zombie e abbiamo imparato a considerare normale ogni orrore, inclusa la possibilità di non tornare a casa la sera se si incontra il lupo sciolto o la baby gang che ti trucida e “non so perché l'ho fatto, brò”.
“Sapete, era pieno ma ne voleva ancora e lo abbiamo lasciato lì”. E quello è andato a tirare venti o trenta forbiciate a una coetanea che fino a un minuto prima era felice di sognare. Non comprendere per non intervenire, non imporre una reazione civile, umana, non dire basta a una deriva di sangue quotidiana e senza logica. Semplicemente lasciarsi vivere e morire al ballo degli zombie aspettando il prossimo.