Omicidio Nada Cella, il 20 novembre la Corte d’appello decide se processare l'indagata Annalucia Cecere
Se i giudici confermeranno il "non luogo a procedere" pronunciato in primo grado, il delitto della giovane segretaria di Chiavari resterà senza colpevoli
Si terrà il 20 novembre davanti alla Corte d’appello di Genova quello che potrebbe essere l’ultimo atto del cold case sull’omicidio di Nada Cella, la giovane segretaria uccisa a Chiavari nello studio del commercialista Marco Soracco il 6 maggio 1996. Dopo la sentenza di non luogo a procedere pronunciata il primo marzo di quest’anno dalla gip Angela Maria Nutini secondo la quale le prove raccolte nelle nuova indagine della squadra mobile di Genova non sono sufficienti per processare per omicidio Annalucia Cecere e nemmeno per portare a processo Soracco e la madre Marisa Bacchioni per favoreggiamento e false dichiarazioni al pm, la Procura aveva fatto ricorso.
La gip aveva sottolineato nelle motivazioni della sentenza “l’inutilità del dibattimento reputandosi che il quadro probatorio delineato dalla pubblica accusa sia insufficiente e per certi versi contraddittorio” essendo anche ravvisabili “ipotesi alternative di ricostruzione”. Nelle 44 pagine di sentenza la giudice aveva smontato di fatto il movente di Cecere gettando al contempo nuove ombre sulla figura di Marco Soracco, all’epoca dei fatti a lungo indagato e poi archiviato per la morte della giovane segretaria. “Sospetti”, a volte addirittura “deboli” e non “indizi” nella ricostruzione della procura che, anche a metterli tutti insieme, non possono indurre a ipotizzare una “ragionevole previsione di condanna” di Annalucia Cecere, aveva detto la giudice.
La pm Dotto aveva fatto ricorso contro quella decisione rimettendo invece in fila indizi e prove. Secondo l’accusa la giudice ha basato la sentenza “su ripetute omissioni” scrivendo “una motivazione che mostra erronee valutazioni giuridiche” e che “presenta anche plurimi travisamenti”. In 20 punti e 80 pagine di appello, la pm ha spiegato quali siano stati gli elementi sottovalutati. “In sentenza è fatto ricorso al vocabolo ‘sospetto’: esso è utilizzato in modo improprio – si legge nel ricorso – soprattutto perché non coglie che ciascuno degli elementi definiti meri sospetti è in realtà un accadimento, un fatto oggettivo”.