Antonio Paolucci, il più politico degli storici dell’arte, meglio dei soprintendenti: dal sacco a pelo al Ministero
Il suo obiettivo, che era anche il mio, era la gratuità dei musei come delle biblioteche, perché le opere d’arte sono strumenti di conoscenza, fondamentali per la formazione e la coscienza di essere italiani. Che non è una condizione post risorgimentale, ma rinascimentale
Antonio Paolucci è stato il mio Soprintendente, il mio terzo Soprintendente, dopo Giovanni Carandente e Lorenzo Chiarelli, a Verona.
Era giovane allora, aveva quarant’anni, io ventisette, e avevamo in comune la lezione di Roberto Longhi di cui lui era stato allievo e io borsista alla Fondazione istituita a Firenze nel ricordo del maestro. Avevamo le stesse idee, gli stessi pensieri, gli stessi occhi. Eravamo amici nella bellezza di tanti artisti veneziani che ci univano. Era un buon conoscitore, ma il suo modello non era Longhi, bensì Vasari. Gli piaceva parlare degli artisti, renderli familiari, fare sentire la presenza, la contemporaneità di Giotto come di Caravaggio. E anche questo ci univa. Dell’arte sentiva, come nessuno, la contiguità e la continuità con la vita.
Il suo sapere si scioglieva nella parola. Dispiace, anche se molto è stato registrato, rassegnarsi a non sentirlo più parlare di artisti come persone vive, senza mai leggere, parlando di loro e con loro.
Essi erano i suoi veri amici, a loro riservava i suoi sentimenti, prolungandone la vita nella nostra.
Tanto la sua funzione era connaturata con la sua esistenza che era leggendario, in quella sede di Soprintendenza a Verona, eterno cantiere di restauro, nella monumentale Dogana vecchia, che egli dormisse in un sacco a pelo, per non interrompere mai la sua ricerca, continuando la sua ricerca in ogni atto della sua vita appassionata, perseverando nella sua militanza, come quel soldato dell’arte che era.
Dal sacco a pelo al ministero.
Antonio Paolucci è stato il più politico degli storici dell’arte, meglio dei soprintendenti. Non perché è stato ministro dei beni culturali, esercitando una funzione politica, ma perché, come nessuno degli studiosi, ha inteso la storia dell’arte non come una ricerca estetica o di approfondimento critico, ma come una esperienza di storia civile, di educazione.
Il suo obiettivo era quello di raccontare l’arte, come conoscenza necessaria per la formazione civile. Nulla di più lontano da lui dell’idea d’intendere l’arte e i musei come fonte di profitto, come valori economici. La bellezza è impagabile e non si paga.
Il suo obiettivo, che era anche il mio, era la gratuità dei musei come delle biblioteche, perché le opere d’arte sono strumenti di conoscenza, fondamentali per la formazione e la coscienza di essere italiani. Che non è una condizione post risorgimentale, ma rinascimentale.
Una nazione si definisce dalla lingua. Ma la lingua non è soltanto nella parola, ma nel segno, nella pittura.
Non si può immaginare che leggere Dante, Leopardi o Manzoni sia diverso da vedere Giotto, Piero della Francesca o Raffaello. E sentire quanto di loro è in noi
L’Italia poi è un insieme di varietà, di identità locali. E Paolucci, che ebbe la ventura di essere Direttore delle istituzioni più nazionali d’Italia, gli Uffizi e i Musei Vaticani, era di origine romagnola. E si era mosso da studi locali, identificando una parte di Rinascimento che si può definire “adriatico”, e sul quale l’approfondimento è ancora in corso.
Ma il Paolucci che conosciamo non è l’allievo di Roberto Longhi, ma il Soprintendente che io incontrai a Venezia e a Verona, e che poi lo divenne a Firenze quando i musei, anche gli Uffizi, le Sovrintendenze erano una sola cosa. E che intendeva il suo lavoro come il risarcimento di un patrimonio dopo il tempo terribile dell’alluvione di Firenze, metafora di una situazione che era quella dell’intero patrimonio artistico italiano. Comincia di lì il ministro, che divenne nel 1995, e che, come nessuno, tenne insieme conservazione e conoscenza, raccontando l’arte, con una impareggiabile affabulazione, in continue conferenze e trasmissioni televisive.
La sua voce ci ha accompagnato e ci accompagnerà davanti a Piero della Francesca, Raffaello, Michelangelo. E, attraverso i suoi occhi, potremmo sentire l’orgoglio di essere italiani.
Di Vittorio Sgarbi.