Apache la Russa, Ciro Grillo, le ragazzine disinvolte: privilegiati che insieme si sfasciano, senza innocenti e senza colpevoli

Stabilire, distinguere le vittime dai carnefici è esercizio specioso perché in quel contesto di lussuosa degradazione tutti condividono la miseria. Una cosa è certa: la politica, data per morta, ha vinto perché ha saputo imporre il modello vincente.

Negli anni Settanta per mano di Camilla Cederna scoprimmo che i tre figli del presidente Leone, tutti avviati a radiose carriere, usavano sollazzarsi con signorine compiacenti che a volte ne pagavano il prezzo. Giornalismo d’inchiesta? Gossip di potere? Di sicuro allora come oggi non mancavano le manovre di palazzo e gli attacchi di partito, anche se non sbracati e miserabili come adesso, si preferiva il gioco di sponda, la manovra accerchiante affidata a giornalisti amici in funzione parassitaria. Di sicuro anche un’altra cosa, più rilevante: i casi paralleli dei giovanissimi figli di Grillo e di La Russa sanciscono la definitiva vittoria della politica a dispetto di chi la dava per morta. È la politica ad avere dettato il paradigma e la società sempre meno civile si uniforma per infame mimesi: la banda di Casal Palocco, gli altri gruppuscoli dediti alle “sfide estreme” che degenerano in stragi familiari, agiscono esattamente nello stesso senso di irresponsabilità e magari di impunità dei figli dei politici e i loro genitori intervengono esattamente come i padri potenti che assolvono a prescindere e tradiscono la sindrome di accerchiamento. È incredibile il tenore di vita di questi ragazzini privilegiati: locali esclusivi, grandi bevute, auto lussuose, il giorno per la notte, nessuna occupazione sicura, tanto sono tutti prossimi a radiose carriere, quel senso di arroganza che trasuda dai selfie, dalle storielle esibite. Ed è incredibile lo stile di vita delle fanciullette pescate, sempre, si direbbe, per coincidenze esoteriche: una prossimità di tavoli, uno sguardo, due gomiti sfiorati, come in un romanzo di Maupassant, la stessa ambientazione esclusiva. Diciotto, venti anni ma incallite e logore come professioniste, da una festa all’altra, da un invito all’altro, barche, alberghi, sniffate, impasticcate e la fine sempre uguale, nel letto di qualcuno appena o per niente conosciuto. Queste mocciose d’alto bordo poi dicono tutte la stessa cosa: “Non mi ricordo niente ma mi sa che ho fatto una cazzata, ne ho combinata un’altra, non imparerò mai”.

Figlie della buona borghesia, perché buona nessuno lo ha mai spiegato ma se consente certi sfasci precoci ai suoi figli, tanto buona non deve essere. Poi hai voglia a dire di vuoto esistenziale, di carenza di valori, hai voglia con le articolesse di stampo giustificazionista: se ci fate caso, questi e quelle possono sempre contare su tribù contrapposte di difensori, di assolutori. Questi e quelle, i pargoli del potere e le arrampicatrici del potere, già rotti in tutti i sensi, capaci di muoversi in società con estrema disinvoltura, di consumare nei luoghi esclusivi, esperti nel concludere degnamente una serata, giovani topi perfettamente a loro agio tra vizi e miserie un tempo riservate alle star. Ma che cosa sarebbe il fenomeno degli influencer se non precisamente la imago mortis, la imitatio del potere che coincide con la politica e i suoi infiniti privilegi? Ogni tanto qualche giornalista incauto scivola sulle sue parole e si gioca o teme di giocarsi il posto in Rai o dove che sia, perché la vanità, l’ego sono più forti della elementare prudenza di chi, sia pure da comprimario, nel gioco ci sta e ne conosce le regole. Ma comprimario nessuno vuole esserlo più e così ci si sfascia allegramente, anche se la solidarietà di casta scatta sempre e alla fine tutto si aggiusta, in un modo o nell’altro. Sì che si finisce a parlare del dramma del coglione che ha parlato o scritto troppo, si scade nelle cronache ginecologiche, nella dietrologia sciacallesca, ma il punto davvero angosciante nessuno lo tratta, perché conviene la filosofia di sopravvivenza del ciascuno si faccia i fatti suoi. Solo che in questo caso giudicare significa capire e non giudicare equivale all’ipocrisia pretesca di chi confonde il giudizio sulle cose, sul reale, col giudizio sui soggetti, il giudizio che prelude a una condanna.

A noi importa poco di condannare ma molto di intendere: quello che vediamo, sono comportamenti inspiegabili al limite dell’innaturale, adolescenti immersi in vite fatate, irreali, dalle quali difficilmente si riprenderanno; cioè non potranno mai staccarsene, non sapranno mai crescere. Del resto, che necessità ne avrebbero? Ogni tanto i rispettivi mondi collidono: qualcuno, o tutti, ha “fatto una cazzata”, l’ha passata a un giornale amico, o che crede tale, e si scatena il termitaio del mondo di mezzo, poliziotti, avvocati, giudici, preti, cronisti, opinionisti chiamati a camminare sul filo, ad informare senza informare, a giudicare senza giudicare, a punire senza punire, a capire senza capirci niente. Per di più oggi imbrigliati da quella nuova forma di controllo che sarebbe il perbenismo woke per cui non si possono più chiamare le situazioni e chi le vive per quelli che sono e si è costretti a scialare in formule, si sprecano perifrasi, si tirano in ballo furori e stridori per cose inesistenti o pretestuose quali il sessismo, il machismo, il brutalismo. Ma la questione è molto semplice: da una parte e dall’altra questi mocciosi senza anima che vivono nella fatata fatuità si fanno male, si buttano via, si degradano a vicenda e con ferocia da adulti corrosi. Stabilire chi sia vittima e chi carnefice si rivela impossibile e in fondo inutile perché quando è la follia a regolare le umane cose tutti diventano tutto e distinguere si risolve in puro esercizio retorico o moralistico, ma certo che passare in 50 anni da giovani marmotte a giovani cazzate è un bel salto, e non incoraggiante.