5 dosi e una vita annientata. Come un vaccino per il Covid può scaricarti in casa di riposo in pochi giorni
Cinque dosi di vaccino per il Covid bastano a far perdere a un uomo tutto, davvero tutto: salute, moglie, casa, speranze. Vi racconto una storia talmente ingiusta che non sembra nemmeno reale. Quante, intorno a noi? E potevano, possono toccare a noi. Perché non si fermeranno
Aspettavo, aspettavo, girando intorno all'inevitabile, rifiutando la resa dei conti, rimandando ancora l'appuntamento con la realtà, con le sue scadenze che ti avvertono ogni giorno a schiaffi di concretezza, tergiversavo, mi trascinavo e intanto mia madre a consumarsi, mia madre demente al 100%, reduce da un ictus, già poco capace di provvedere a se stessa, crollata dopo due vaccini. Lei inchiodata al letto, non più disposta a levarsi e scendevo all'estremo, al limite dell'ictus io stesso, e tutto intorno scricchiolava, schiantava, accelerava ma non mi decidevo: come mandarla via da casa, anche se la padrona di casa insisteva, con impercettibile contrarietà, che non era più sostenibile, che temeva la catastrofe, il gas lasciato acceso, il palazzo che esplode? E la notte non ci prendevo sonno. Finché mi sono ammalato e non avevo più scampo e nemmeno alibi. E lì qualcosa dev'essere successo per forza, qualcosa di provvidenziale perché, per uno dei rari miracoli della mia vita, ho sbattuto contro una struttura in tutto e per tutto alla nostra portata e potevo entrare subito, una coincidenza sovrumana a fronte di liste d'attesa di mesi, di anni. Prima di Natale. Questo posto me l'ha rimessa in piedi e perfino un poco in senno, poco, lei nel marasma di quanto resta della mente confonde figli e fratelli, cerca i genitori, non sa di avere 90 anni, mi chiama con nomi lontani, scentrati, che fanno ridere tutti ma risponde e sorride, si alza e mangia e cammina. “Ha avuto un recupero prodigioso” mi dice un altro ospite “dopo il femore rotto ci volevano in tre a sollevarla, adesso va da sola”. Questo vecchio ha voglia di parlare e non capisco se perché sono l'unico che vede sotto gli 80 o se percepisce la mia funzione, che è quella di intercettare destini. Ho voglia anch'io, del resto, perché è una costante di vita: chiunque io attraversi si ferma come in una stazione del dolore e vuota tutto, racconta tutto. Ed è sempre stato così e non potevo che finire a fare il mestiere che faccio. Questo vecchio è diverso: non è suonato, anzi emana una certa solennità, a me ricorda un Camilleri senza capelli sul collo; parla, racconta allo stesso modo, con la stessa voce profonda e pacata; la sua storia è di quelle che prendono allo stomaco e lo rivoltano.
È qui da poco e, non lo nasconde, si trova anche bene. Gli credo, lo vedo, è un posto di angeli, qualcuno nero, qualcuna slava, altri italiani, c'è pulizia in tutti i sensi e ci sono i sorrisi della pazienza e del rispetto. Ma lui però non dovrebbe starci qua. Fino a sette, otto mesi fa non ci stava, infatti, ed era l'ultima delle sue prospettive, delle sue preoccupazioni. Perfettamente autosufficiente, una quercia d'uomo, guida, cura la casa, la spesa, uno di quegli ultraottantenni che sembrano aver lasciato la vecchiaia sulla scorza. Invece di colpo gli esplode il Fuoco di Sant'Antonio, herpes Zoster, e le gambe sono di marmo, non può sollevarsi, non può più alzarsi. Lo portano in ospedale, cinque giorni e finisce tutto, lui qui dentro e sa che non ne uscirà, per complicate cause logistiche, di mansarde, di case rialzate senza ascensore ma ho capito benissimo che in casa non ce lo vogliono, se lo sono tolto dai coglioni. Sì, ma il Fuoco così di colpo? Lui allarga le braccia e io non mollo, il richiamo della foresta è più forte della discrezione e la mia foresta è da sempre intrico di passione: ti sei fatto il vaccino? “Cinque ne ho fatti e poi è scoppiato il finimondo. E che dobbiamo fare?”.
Non gli chiedo il nome, non voglio, non mi interessa, non mi serve e un po' sto assorbendo la sua sofferenza dignitosissima e un po' lo sto già usando, ho già deciso che la sua storia la farò sapere. Senza dirglielo perché a che servirebbe? E la storia continua, ancora più ingiusta, ancora più atroce. Fino a un anno fa, “Camilleri” aveva tutto, compresa una moglie di dieci anni più giovane, intelligente, ricettiva, una ex maestra; m'immagino questa coppia che invecchia serena, i figli sistemati, loro con l'unico problema di una routine affettuosa, scandita da piccole amabili complicazioni. Questa moglie ha una depressione strisciante, come moltissimi, quasi tutti specie dopo le reclusioni di massa, come chi scrive, ma anche lei dopo la quinta dose di vaccino perde il controllo, le esplode tutto dentro, si ritrova in ospedale, pochi giorni e si spegne.
Ma di depressione endemica non si muore. Cosa dev'essere stata quella bestia capace di mangiarti dentro in poche ore? Così si distrugge una famiglia, un amore, una vita a due, una senilità dolce e saggia, un futuro marginale ma non per questo meno prezioso, anzi. I consigli dei figli, che diventano ordini e i vecchi, per non contrariarli, perché si fidano, obbediscono, si adeguano. “A me mi sa che 'sto vaccino mi ha fregato...”: ma come fa il mio Camilleri a prenderla con una simile dignità, senza inveire, senza bestemmiare, senza detestare, io che da due anni e due vaccini non trovo pace e odio tutti e vorrei farmi giustizia da solo come uno stragista impazzito? E ci penso e so che anche a me questa pozione ha risvegliato sia la depressione che il Fuoco: me lo conferma Andrea Stramezzi, il medico maledetto, esecrato, più volte deferito dai virologi televisivi, sottoposto a una pressione che per poco non lo faceva finire come il collega Giuseppe De Donno, infamato fino al suicidio e poi infamato ancora dopo morto. E le facce di merda che lo distrussero ancora lì a pontificare, a fiutare il vento, a riciclarsi. Io da “Camilleri” differisco solo perché ho una ventina d'anni di meno e non sono vedovo, altrimenti la mia fine era la sua, altrimenti stavamo lì insieme a giocare a carte, ad aspettare il brodino alle sei di sera. Ma nel posto sbagliato, perdio, perché di testa ci stiamo. Lui ci sta e parla e ha la saggezza che io non avrò mai. Ha la bontà dei martiri, delle anime sante che sanno come sia inutile coltivarsi nella rabbia. E un'altra cosa sa questo mio amico: che l'ascensore a casa sua non glielo metteranno mai e dunque finge di sperare con me perché se smette di illudersi crolla subito, anche lui. Finisce tutto. Però non è giusto, dannazione, non c'è niente di giusto in tutto questo. Non ha senso questa storia eppure è così dilaniante.
Quanti sono i Camilleri distrutti, resi vedovi, scaricati in ospizio per un vaccino sbagliato, somministrato 5 volte, nella leggerezza o magari peggio di chi doveva andarci piano? Ricordo che mia madre dopo due dosi si ritrovò con una gamba elefantiaca e il corpo coperto di pustole, che io mi credevo la scabbia, la rogna, e invece non si sappe mai cosa fosse e alla fine, misteriosamente com'era venuta, quella strana tigna se n'è andata, però le era venuta subito dopo il vaccino, che da allora le ho proibito, certamente salvandola, così come a mio suocero era esplosa con la terza dose una sordità inafferrabile, incatalogabile, per la quale ha speso migliaia di euro in auricolari completamente inutili: un giorno non sente niente, un giorno sente come sott'acqua e un giorno sente come nei suoi vent'anni. E come lui, come il mio Camilleri a migliaia, e migliaia, e decine di migliaia e centiniaia di migliaia ma all'Aifa si vantavano di disperdere le segnalazioni, di insabbiarle e non rispondere “alle curiosità moleste dei pazienti” come diceva la farmacista Anna Rosa Marra, promossa dal governo Meloni a capo dell'Agenzia al posto del Magrini che obbediva ciecamente a Speranza, “Se tu non vuoi io non dico che tutto questo è inutile”. Inutile e falso.
Io in 30 anni di mestiere ne ho viste di cose: per infinite stagioni la mia vita ha oscillato fra carceri, tribunali, obitori, morti ammazzati, puttane segate in due, travestiti decapitati, il peggio della ferocia umana che è demente e miserabile e non cambia, ma questa storia di Camilleri, prigioniero in un ospizio umano fin che si vuole ma ospizio, unico lucido fra tante menti smerigliate, questa non la reggo nemmeno io. E ho baciato come un pazzo mia madre ho sfiorato Camilleri in saluto e sono uscito correndo e con la mia cagnolina vagavo per la spiaggia sotto il primo sole dopo mesi che m'intontiva ma non era il sole, era un cappio allo stomaco, era che già m'inseguivano le parole, quel senso del raccontare che è un imperativo categorico, che brucia più del Fuoco di Sant'Antonio e mi vedevo lì dentro con i vecchi sfasati a vedere in televisione Conte che fa l'eroe perché uno, un ex grillino memore dello stato concentrazionario, gli ha tirato, di sbieco, uno schiaffo e tutta la politica ha fatto quadrato, sdegno, indignazione, vergogna, solidarietà ma quando ci trattavano da deportati, quando ci recavano al macello come animali sorridenti e confusi, quando dopo le somministrazioni cascavano come mosche, quando dalla chiesa di casa mia le campane a morto si son messe a suonare due volte al giorno, e prima toccavano una volta la settimana, nessuno si preoccupava, nessuno mai una parola di prudenza, di perplessità, di umana pietà.