I Savoia battono cassa: «Quei gioielli sono nostri»: Emanuele Filiberto sfida lo Stato Italiano per la restituzione del tesoro della Corona
A quasi ottant’anni di distanza dal Referendum Repubblica-Monarchia, i discendenti di Umberto II rivendicano la proprietà di un tesoro di inestimabile valore storico depositato alla Banca d’Italia
I Savoia battono cassa: «Quei gioielli sono nostri»: Emanuele Filiberto sfida lo Stato Italiano per la restituzione del tesoro della Corona
Emanuele Filiberto, a pochi giorni dalla conclusione del Capitolo Generale degli Ordini dinastici di Casa Savoia, svoltosi nella Basilica di San Giovanni in Laterano e in altre esclusive location della capitale, a cui ha partecipato con la nuova compagna Adriana Abascal, torna all’attacco per la restituzione dei gioielli della Corona d’Italia, la dotazione di parure, diademi e collane che i sovrani indossavano durante le manifestazioni pubbliche. Dopo la sentenza che ha stabilito la proprietà statale del Tesoro della Corona, Maria Gabriella, Maria Pia, Maria Beatrice ed Emanuele Filiberto hanno deciso di presentare ricorso. Vogliono la restituzione dei gioielli che furono depositati da Umberto II nel Caveau della Banca d’Italia, prima della partenza dell’esilio, con la scritta autografa “a chi di diritto”. Una forma senz’altro ambigua, già all’epoca, forse suggerita dal Ministro della Real casa Marchese Falcone Lucifero, che mai si sarebbe immaginato che da li a poco tempo sarebbe stata promulgata la costituzione repubblicana che non solo vietava l’ingresso e soggiorno in territorio nazionale degli ex re, delle loro consorti e dei loro discendenti maschi, ma che revocava alla Stato Italiano tutti i beni di casa Savoia presenti sul territorio nazionale. Forse Umberto depositò i gioielli sperando che l’esilio sarebbe durato solo qualche mese e non più di 40 anni? Difficile interpretare il gesto dell’Ultimo Re d’Italia, fatto sta che a distanza di 80 anni, i diretti discendenti di Umberto hanno chiesto per vie legali i preziosi. «Quei gioielli sono nostri, non dello Stato», è la loro posizione. Il cosiddetto tesoro della Corona d’Italia è composto da oltre seimila brillanti, duemila perle, un raro diamante rosa montato su una spilla, diademi e collier. Dal 5 giugno 1946, giorno in cui la monarchia fu abolita con il referendum popolare, questi gioielli sono custoditi in un cofanetto sigillato. Fu Falcone Lucifero, a consegnarli alla Banca d’Italia “per conto di Sua Maestà il Re Umberto II”, precisando che dovevano essere “tenuti a disposizione di chi di diritto”. Un patrimonio di cui nessuno ha mai capito il vero valore, forse più storico che monetario. A quasi ottant’anni di distanza, come riporta il Corriere della Sera, i Savoia rivendicano la proprietà di un tesoro stimato in circa 300 milioni di euro. «Non si tratta di beni statali, ma di patrimonio personale della famiglia reale – sostengono – non furono mai confiscati, solo depositati». Per questo, gli eredi di Umberto II hanno chiesto alla Corte d’Appello di non applicare la XIII disposizione della Costituzione, ritenuta in contrasto con le norme europee, e di disporre la riapertura del cofanetto per verificarne il contenuto. La replica della magistratura non lascia interpretazioni: Il giudice Mario Tanferna, nella sentenza di primo grado, ha ribadito che «i gioielli non sono mai appartenuti a Umberto II, ma allo Stato fin dai tempi dello Statuto Albertino». Un principio, aggiunge, «rimasto invariato nel passaggio alla Costituzione repubblicana, che prevede l’avocazione allo Stato dei beni degli ex re di casa Savoia e dei loro discendenti maschi». Da parte loro, i Savoia hanno evocato una figura autorevole: Luigi Einaudi, allora governatore della Banca d’Italia. Nei suoi diari, scrisse che «potrebbe ritenersi che le gioie spettano non al demanio dello Stato, ma alla famiglia reale». Tuttavia, per il giudice Tanferna, «non può essere attribuito un valore decisivo ai diari». Una posizione condivisa anche da Olina Capolino, ex capo degli avvocati della Banca d’Italia, secondo cui quelle annotazioni riflettevano «sentimenti di stima personale e simpatie monarchiche del Primo Presidente della Repubblica».