A Ferragosto montagne affollate e spiagge vuote: paradossi turistici e polemiche, tra prezzi stellari e overtourism

La settimana di ferragosto ha confermato le previsioni: la situazione nei lidi non è migliorata. Molti posti sono rimasti con gli ombrelloni chiusi, rispetto al pienone degli anni precedenti. Emerge però una strana tendenza: i flussi portano alla montagna alla ricerca di temperature favorevoli e prezzi abbastanza giustificabili. Questa dicotomia agostana però non è esente da polemiche con l'overtourism a minacciare l’equilibrio alpino e Messner che si erge a paladino dei luoghi di quiete montana

C’è stato un tempo, anche recente, in cui il Ferragosto significava spiagge gremite, stabilimenti balneari pieni e ombrelloni fitti come funghi lungo le coste italiane. Oggi, nell’estate 2025, il quadro sembra ribaltato: lidi semivuoti, famiglie che rinunciano al mare a causa di prezzi ritenuti proibitivi, e montagne che diventano teatri di un affollamento senza precedenti, con code chilometriche per un sentiero e migliaia di visitatori ammassati attorno a laghi alpini trasformati in palcoscenici da social network. È l’immagine più evidente di un turismo disallineato, che oscilla tra eccessi e deserti, senza trovare un equilibrio capace di generare valore né per i visitatori né per i territori.

Prezzi stellari e vacanze mordi e fuggi: il mare che non convince più

Il Salento è forse il simbolo più eclatante di questa parabola. Le cronache di questa estate parlano di lidi che chiedono più di 85€ di media (e punte di 100) al giorno per un ombrellone e due lettini, di frise vendute come piatti gourmet a 17 euro e di parcheggi sul mare a 6 euro l’ora. Non stupisce che in località come Otranto molti gestori abbiano lamentato un calo fino al 50% delle presenze. Sebbene i balneari si difendano incolpando il caro vita e giustificando gli aumenti con l’adeguamento ai costi operativi base, quello che secondo i consumatori emerge è che non è solo una questione di crisi economica o di inflazione: a pesare è la sensazione di un’offerta che non giustifica il prezzo, di un’esperienza che non riesce più a trasmettere autenticità, accoglienza e qualità, quei valori che storicamente hanno reso le coste pugliesi meta di un turismo internazionale.

Il risultato è un turismo mordi e fuggi, fatto di escursioni giornaliere, di visite brevi, di consumi rapidi e poco radicati. Un turismo che lascia ben poco sul territorio e che rischia di bruciare in pochi anni la reputazione costruita in decenni, in favore di altre coste che si affacciano sull’Adriatico e sullo Ionio e che si pubblicizzano “come in Italia, ma meno caro”, più che un campanello di allarme, quasi una sirena di siluro in rotta di collisione.

Montagne sommerse di turisti e polemiche: Messner contro gli improvvisati, Dolomiti contro UNESCO

Se il mare respinge, la montagna invece attrae, ma lo fa oltre i limiti di gestione. Basta guardare a quello che accade sulle Dolomiti, il Lago di Braies, diventato un’icona di Instagram, ha superato il milione di visitatori in una sola stagione estiva. Alle Tre Cime di Lavaredo si parla di oltre 14.000 presenze al giorno, numeri che rendono impossibile vivere la montagna per ciò che è, uno spazio di silenzio, di contemplazione, di contatto diretto con la natura. Qui il problema non è il prezzo, ma il numero. Un eccesso che non solo compromette i fragili ecosistemi alpini, ma trasforma la montagna in un parco giochi, un fondale scenico da consumare in fretta e da immortalare con lo smartphone.

Reinhold Messner, alpinista e voce autorevole di queste terre, mette in guardia: «la montagna non può diventare un parco giochi». Critica l'assalto dei turisti impreparati, senza attrezzatura né consapevolezza, che mettono a rischio se stessi e il territorio. «Serve rispetto, non affollamento sensazionalistico», e dice chiaramente: «I turisti vanno in montagna per guardarla dal buco del cellulare». Una frase emblematica, che restituisce la misura di un fenomeno in cui l’esperienza diretta si dissolve dietro lo schermo, e l’incontro con la natura diventa una sequenza di contenuti da condividere, più che un momento da vivere.

Non si tratta solo di estetica o di romanticismo. Il problema è anche di sicurezza. Gli operatori del soccorso alpino denunciano da anni l’aumento di incidenti causati da escursionisti improvvisati, privi di equipaggiamento e di consapevolezza, attratti dall’idea di “fare la foto” a una vetta o a un panorama senza avere la preparazione minima per affrontare il percorso. La montagna, in queste condizioni, diventa un luogo a rischio non solo per l’ambiente ma per le persone stesse.

A complicare il quadro c’è la recente polemica che ha travolto il Comitato Dolomiti UNESCO. Alcuni operatori locali hanno accusato l’organismo di aver puntato troppo sulla promozione internazionale delle vette, trasformandole in una calamita per milioni di visitatori, senza predisporre strumenti adeguati alla gestione dei flussi. L’idea, provocatoria ma significativa, di rinunciare al riconoscimento UNESCO è emersa proprio da queste tensioni: meglio un turismo sostenibile e gestibile che un marchio di prestigio capace di attrarre numeri insostenibili. La Fondazione Dolomiti UNESCO ha risposto sottolineando come l’iscrizione nella lista non sia un bollino di marketing, ma un impegno a proteggere il patrimonio e a governarne la fruizione. Tuttavia, il dibattito resta aperto e fotografa bene l’incapacità italiana di conciliare promozione e pianificazione, visibilità e sostenibilità.

Un turismo senza equilibrio consuma i territori

Il paradosso, dunque, è evidente: da un lato spiagge che si svuotano perché troppo care, dall’altro montagne che implodono sotto il peso dei visitatori. Due facce dello stesso problema: un turismo che consuma ma non costruisce, che porta presenze ma non valore. Un modello che lascia dietro di sé deserti stagionali, comunità spogliate delle loro identità, territori trasformati in scenografie a uso e consumo di chi arriva e se ne va.

Il problema non riguarda solo i numeri, ma anche il significato stesso del turismo. Le località balneari hanno puntato per anni su un modello estrattivo, che cercava di massimizzare i profitti nel breve periodo senza investire su servizi, infrastrutture, destagionalizzazione. Il risultato oggi è che al primo segnale di crisi — che siano prezzi troppo alti, concorrenza internazionale o semplicemente nuove mode — i flussi si spostano altrove, lasciando alle spalle lidi semivuoti e operatori disorientati. Le montagne, al contrario, sono diventate vittime del loro stesso successo mediatico: cartoline troppo perfette, immagini virali che hanno acceso la curiosità di milioni di persone, ma che hanno portato a un affollamento che cancella proprio quello che le rendeva uniche, cioè la possibilità di vivere spazi incontaminati e autentici.

Il rischio più grande, però, non riguarda solo il presente. Se il mare si svuota d’estate e la montagna per il resto dell’anno, cosa rimane ai territori? Restano comunità che vivono di stagionalità esasperate, che si trovano senza servizi per gran parte dei mesi, che vedono crescere i prezzi delle abitazioni a fronte di residenti che se ne vanno. In montagna questo fenomeno è ancora più evidente: villaggi che si popolano solo in agosto, condomini pieni di seconde case lasciate vuote per undici mesi, servizi pubblici che non reggono perché mancano gli abitanti stabili. È qui che il dibattito internazionale offre spunti importanti. La letteratura più recente parla della montagna non solo come meta turistica, ma come laboratorio di nuove forme di abitabilità. Alcuni esperti hanno sottolineato come le aree rarefatte — Alpi e Appennini — possano diventare nuove periferie competitive, capaci di attrarre giovani famiglie, imprese, professionisti. Ma per farlo serve andare oltre la logica assistenziale, oltre l’idea che la montagna debba sopravvivere solo di turismo stagionale.

Serve investire in sanità, scuola, mobilità, connettività, cultura. Senza questi elementi, le vette resteranno territori fragili, dipendenti e sempre più a rischio spopolamento.

Il turismo, se ben gestito, può diventare una leva per questo ripensamento. Ma a patto che non resti un turismo “mordi e fuggi”. Che il mare non si limiti a vendere ombrelloni a prezzi stellari e che la montagna non si trasformi in un set fotografico. Occorre un modello che distribuisca presenze durante tutto l’anno, che promuova esperienze autentiche, che coinvolga le comunità locali e che investa in qualità piuttosto che in quantità. Un modello che faccia del rispetto la chiave di accesso: rispetto dei territori, delle persone che li abitano, dei visitatori stessi.

Non sarà facile, perché richiede un cambio culturale. Richiede che gli operatori del mare rinuncino alla tentazione del guadagno immediato, puntando su servizi e fidelizzazione. Richiede che chi governa le montagne sappia dire dei no, introducendo limiti agli accessi, sistemi di prenotazione, forme di regolazione intelligente. Richiede soprattutto una comunicazione diversa, che non riduca i territori a slogan o a immagini da cartolina, ma che racconti il valore reale dell’esperienza. Perché se è vero che un prezzo senza valore svuota le spiagge, è altrettanto vero che un pieno senza comunità disgrega le montagne.

L’Italia, in fondo, è tutta in questo paradosso: mare che respinge, montagna che implode. Un Paese che non riesce a trovare equilibrio tra attrazione e gestione, tra promozione e rispetto. Ma è proprio da questo paradosso che può nascere una nuova strategia, capace di ridare senso al turismo e di trasformarlo da minaccia a risorsa. Una strategia che non guardi al turista solo come consumatore, ma come ospite; e che non riduca i territori a scenografie, ma li restituisca come luoghi vivi, abitati, accoglienti. Solo così, forse, potremo tornare a parlare di turismo come di una ricchezza condivisa, e non come di un problema che divide, svuota e consuma.

di Nicola Durante