Fenomenologia del (partecipante al) concertone del primo maggio

La versione aggiornata, o invecchiata, della inconcludente di Nanni Moretti non rinuncia alla vaghezza paracula ma in modo ancora più finto, più falso che in passato. Quanto a chi canta, è sempre la razza immutabile degli opportunisti e dei gattopardi, ormai appesantiti

Quando scocca il primo maggio si parla sempre del bestiario artistico, i succedanei e gli scoppiati che sfilano in fila per tre col resto di due alla corte del sindacato affarista che ha definitivamente mollato i lavoratori per consegnarsi al carrierismo dei segretari e all'opportunismo della sovrastruttura. Ma di questi inetti, tenacemente legati al carrozzone senza il quale restano definitivamente privi di sovvenzioni, di questi capricciosi apprendisti cui il benessere capitalistico ha consentito di vivere senza lavoro e senza talento, in qualche caso perfino troppo bene, abbiamo detto già ad nauseam; questa volta vogliamo soffermarci sulla fenomenologia del pubblico, lo spettatore-tipo della liturgia canterina di San Giovanni. Trattasi di soggetto mediamente benestante, mantenuto dalla famiglia, sostanzialmente nullafacente, a pendolo nelle pseudoprofessioni della contemporaneità, esperti di qualcosa, tecnici di grafica, di computer, tutti molto scarsi, trafficanti d'aria di the, come cantava Umberto Tozzi, consumatori accaniti d'“erba buena” come gesto resistente e resiliente, che si risolve nella consacrazione del rincoglionimento biochimico. Sono fantasmi; zombie disperatamente convinti di esistere; se per caso hanno fatto da facchini, che so, a Zerocalcare o Federico Zampaglione, cantautore da una canzone, ostentano familiarità patetiche, li chiamano per nome, poi magari quelli passano, un cenno e tirano via. Insomma usano verso lo spettatore-tipo la stessa degnazione vagamente razzista che quest'ultimo riserva al fratello migrante, al quale rivolge ostentati abbracci, pacche, mani strette, scambi di erbe buene, ma appena quello scantona fioriscono battute romane, molto meschine, quanto a odori, livello di igiene, attitudine a rompere i coglioni.

Perché se noi si va a vedere, l'uditore-tipo del concertone sindacale è quella roba lì: un classista di merda, un tracotante che simula adattabilità, un populista molliccio, fondamentalmente cattivo e rancoroso come un ramarro cornificato. Anche lui ha il suo personale armocromista, come la compagna Elly, di solito un amico coinvolto nelle false professioni contemporanee, uno che gli spiega come adattarsi al contesto: eccolo, in piena messa cantata, munito di tutti gli accessori, possibilmente griffati, ma avendo cura di rimuovere l'etichetta; quanto al logo, lo si sfoggia come gesto di noncuranza rivoluzionaria, a me Nike, Boss, Piumelli fanno 'na sega, io mica so' comunista così, so' comunista cosììì! Concentrato com'è sul lato etico-estetico, roba hard, da francofortesi, lo spettatore zombie di San Giovanni carica l'accento romano infiorettandolo di bestemmie consapevoli e sessiste, in modo compiaciuto, contro “quella troia della Meloni, porco..., porca...”. Poi ride, però non più coi denti marci e terremotati dei sessantottini e settantasettini perché l'habitué del concertone, apparentemente fermo ad una cura personale da secolo scorso, anzi da quello ancora prima, livello Babeuf, alla dentatura candida ci tiene: è segno di salute sociale, fa rango, esprime un significante che diventa significato: sì, compagni, ok, siamo tutti nella stessa barca però non rompetemi il cazzo perché io i soldi ce li ho e non sono tenuto a prendermi cura delle vostre precarietà oltre un concerto o una manifestazione o una smadonna estetica. Insomma, compagni, parliamoci chiaro: i migranti sì, ma a debita distanza, quei rompicoglioni ve li ospitate voi. Ma adesso lasciami sentire Giuse De Lizia e Fulminacci, porco... d'una porca..., che ce l'hai un accendino, che me s'è scaricato?”. A proposito di madonne, la madonna pellegrina (minuscolo, se non vi dispiace) dell'apostolo di San Giovanni è Ambra, Ambra Angiolini, in tenera infanzia teleguidata dal 50enne Bonco, cresciuta da un flop all'altro e misteriosamente risorta come Fenice dei diritti; che giacesse in fama di okkupatrice abusiva, di casa già condivisa con l'allenatore Allegri, che poi se ne andò, mentre lei a sloggiare non ci pensava proprio finché non obbligata da “Fuori dal coro” di Mario Giordano, non è disdoro ma valore aggiunto: scusate, che altro sono i sindacati se non congreghe che prosperano sui lavoratori, sui loro diritti, puro business in nome dell'anticapitalismo? Poi Ambra non tocca i diritti reali, di proprietà, lei è più puntata sui diritti climatici, il riscaldamento globale e infatti anche questo primo maggio, come tutti gli anni, piove e fa un freddo della Madonna, i diritti sessuali, che nessuno sa cosa siano ma ci sono: i diritti, apoditticamente, che vengono celebrati qui, a san Giovanni, palco sindacale, retorica costituzionale, ortodossia verso il regime che ci chiudeva tutti dentro mentre il segretario Landini sfilava sottobraccio ell'eurobanchiere e tiranno Draghi. I nostri cantanti cantano contro il fascismo ma quello di 100 anni fa, non quello di 3 anni fa, cantano in favore dell'Europa dei potentati finanziari e industriali, per le mascherine, i QR, le app di tracciamento, il socialismo reale, concentrazionario che finalmente ritorna in versione ipertecnologica e tecnocratica. Loro cantano, i celeberrimi Rocco Hunt, Levante, Mr. Rain cantano, c'è pure Pelù, pure Ligabue, 4 dosi e Covid che non passa, c'è pure uno dei Righeira, 1983-2023, vamos a la paga, dal disimpegno da bere al pugno chiuso da bersela, c'è tutta la marmaglia sanremese, ieri del festival cocainomane oggi con la kefiah e il profumo d'erba buena nell'eterno gattopardismo parassitario italiano. Loro cantano e gli sfaccendati sotto al palco, rincoglioniti affumicati nelle loro armature di sudore antico, manco li distinguono, la bottiglia in una mano, il cannone nell'altra, “Iiih Meloni troia, porco... porca...”, a mezzanotte tutti a casa, che domani comincia un'altra giornata di duro far niente.