Non siamo stati progettati per avere figli così tardi: contro l’illusione di un tempo infinito e di una giovinezza senza conseguenze
Il corpo umano, femminile e maschile, non è mai stato selezionato per rimandare indefinitamente la riproduzione. Al contrario: l’intero apparato riproduttivo è costruito per funzionare presto, bene e per un tempo limitato.
Tutte le famiglie si somigliano. Ma alcune non hanno mai lo spazio per nascere.
Dirò qualcosa che potrebbe offendere la sensibilità di chi mi legge; tuttavia non me ne scuso. In un’epoca in cui è divenuto assai difficile affermare l’ovvio, rendendo le tossiche convinzioni fruibili da chiunque, occorre avere il coraggio di essere antipatici, se ciò significa produrre quantomeno un sussulto nella bara demografica verso cui l’Occidente si colloca.
Non siamo stati progettati per far figli così tardi. Punto. Ci troviamo di fronte a un momento storico del tutto bizzarro, in cui le scoperte scientifiche ci hanno condotto a sperimentare quell’hybris tanto punita da Dante, sicché, piuttosto che puntare a un miglioramento del nostro sistema, umano ed esogeno, ci siamo fissati con l’idea che la natura non vada più capita, ma semplicemente superata.
Basti vedere i contesti civili che vanno per la maggiore: le città sono grigie, depurate dai colori autentici che fanno vibrare l’uomo; al loro posto, una serie di sovrastimoli che conducono la mente verso un’iperattività costante. Le piante sono artificiali, incapaci di morire; i giardini sintetici sono fatti per ingannare lo scorrere del tempo; i cinquantenni vogliono sentirsi giovani uscendo con avvenenti ragazze dell’Est; le cinquantenni non vogliono invecchiare, riempendosi il volto di filler e trattamenti chirurgici già iniziati all’alba dei trent’anni.
Questa società ha paura di invecchiare. La storia più vecchia del mondo: il timore verso la morte ha fatto sì che l’essere umano facesse della propria esistenza qualcosa di significativo. Nel passato, quando l’età media si spegneva attorno all’inizio dei quaranta, eravamo capaci di costruire cattedrali bellissime; chi le cominciava moriva molto prima di vederne la conclusione.
Un’altra cosa che si faceva molto nel passato, e non solo perché mancava la televisione, erano i figli.
Anche questi appartenevano al concetto di esorcizzazione della morte. Anzitutto, le società erano estremamente differenti e la maggioranza della popolazione viveva di forza lavoro. Avere tanti figli significava più braccia per i campi; farne molti scongiurava i problemi derivanti dalla morte di quelli non abbastanza forti per quella natura tanto bella quanto crudele.
Man mano che la nostra evoluzione scientifica e sociale si è portata avanti, abbiamo fatto diverse cose. Anzitutto, l’aspettativa di vita è migliorata assai, mettendo un balsamo dolce sul timore reverenziale verso la morte. Le donne hanno cominciato a ottenere sempre più spazio sociale, entrando a far parte anch’esse della forza lavoro dell’era capitalista. E base imponibile dello Stato. Perché tassare solo l’uomo?
E, nel bel mezzo di battaglie sociali che, all’aumento del benessere, perdevano il loro stretto significato, ci siamo ritrovati all’interno di una società piena di diritti ma sempre più vecchia. Erba sintetica, grattacieli altissimi, odori forti e nauseabondi di corpi allenati e decadenti, labbra deformate, sorrisi dentali finti. Culle vuote.
Ma la biologia, che non conosce slogan né narrazioni salvifiche, è meno indulgente di qualsiasi editoriale progressista.
Il corpo umano, femminile e maschile, non è mai stato selezionato per rimandare indefinitamente la riproduzione. Al contrario: l’intero apparato riproduttivo è costruito per funzionare presto, bene e per un tempo limitato.
Nel caso femminile, il dato è brutale: gli ovociti non si rigenerano. Una donna nasce con un patrimonio finito, che invecchia insieme a lei. Con il passare degli anni aumentano gli errori meiotici, le anomalie cromosomiche, gli aborti spontanei, le gravidanze complesse. Più un ovocita è vecchio, più è fragile. Dopo i trent’anni il declino è statistico; dopo i trentacinque è esponenziale.
Anche l’uomo, sebbene più lentamente, paga il prezzo della procrastinazione. Lo sperma si rinnova, sì, ma il DNA che trasporta accumula mutazioni. Con l’età paterna aumentano le alterazioni genetiche de novo, cresce il rischio di disturbi neuro-sviluppativi nella prole, cala la qualità complessiva del materiale riproduttivo. La favola dell’uomo eternamente fertile è, appunto, una favola: in natura non esistono riproduttori immortali.
Il risultato è una società che pretende di riprodursi contro il proprio assetto biologico e poi si stupisce dell’aumento di infertilità, del ricorso massiccio a tecniche di procreazione assistita, delle gravidanze medicalizzate come patologie da monitorare anziché processi fisiologici.
Dal punto di vista evolutivo, la logica è ancora più chiara. Per millenni la selezione naturale ha favorito individui capaci di riprodursi prima, quando il corpo era forte, l’energia abbondante, la capacità di accudimento elevata. Riprodursi giovani significava massimizzare la probabilità che il figlio arrivasse all’età adulta e che il genitore fosse ancora vivo e funzionale per proteggerlo. La natura non investe su chi arriva tardi, stanco e già in declino: investe su chi può sostenere.
La modernità ha spezzato questo patto, ma non ha riscritto il codice biologico. Ha semplicemente sovrapposto una narrazione di controllo totale: controllo del tempo, del corpo, della fertilità, dell’invecchiamento. Il figlio non è più il frutto naturale di una fase della vita, ma un progetto da calendarizzare quando “tutto il resto è sistemato”. Peccato che il corpo non conosca il concetto di carriera, di stabilità finanziaria o di autorealizzazione individuale: conosce solo finestre che si aprono e si chiudono.
So che, tra le obiezioni, qualcuno potrebbe espormi le nuove tecniche di procreazione.
Molte attrici americane hanno fatto ricorso all’utero di un’altra donna; alcune donne hanno già provveduto a congelare i propri ovuli, e via dicendo.
Va bene, ve lo concedo, ma non cambia la realtà dei fatti; aggiunge semmai una nota più dolente e una domanda di coscienza necessaria: ritenete che queste tecniche siano accessibili a chiunque?
Una singola procedura di congelamento degli ovuli può costare decine di migliaia di euro, e un percorso completo di surrogacy supera spesso i centomila.
Ancora una volta, cara classe media, soggetta agli stessi slogan della carriera e della vita alla Sex and the City (valida sia per gli uomini che per le donne), vieni raggirata.
Per anni abbiamo fatto sì che la maternità venisse posta sotto attacco, assieme alla virilità, entrambe utilizzate come recipiente ideologico comodo contro i difetti della famiglia borghese: della casalinga stressata e del marito apatico e incoerente. Le rappresentazioni televisive hanno fatto il resto, portando avanti un unico modello della stessa famiglia infelice. E tutte le famiglie infelici si assomigliano.
Qui è necessaria un’ultima critica, concedetemela, cari lettori. Abbiamo dimenticato un elemento essenziale nel corso della narrazione: la responsabilizzazione. Nulla funziona senza individui capaci di assumersi la responsabilità delle proprie scelte e delle proprie azioni. Si potrebbe andare ancora più a ritroso e parlare dell’istituzione del matrimonio, la quale, ab origine, si tratta anzitutto di un rito d’intenti tra due individui che, all’interno di una formula, riconoscono la responsabilità reciproca.
«Mettimi come sigillo sul tuo cuore, perché forte come la morte è l’amore», leggiamo nel Cantico dei Cantici, e voglio concludere in questo modo.
Tutto lo scritto è nato pensando alla morte, motore scatenante dell’evoluzione umana, delle meraviglie create dall’uomo come testamento ereditario per i suoi discendenti.
Ma l’unico esercizio contro l’entropia non può che essere la vita. Mai come oggi abbiamo avuto i mezzi per sopravvivere a lungo, e mai come oggi sembriamo incapaci di trasmetterci.