Contro la vita metropolitana: elogio della metafisica del corpo

La vita metropolitana non è una battaglia alla natura: tutt’altro. Essa rappresenta il fallimento maggiore di quest’ultima, perché laddove la sovranità non appartiene all’equilibrio tra corpo e spirito, il valore dell’esistenza si assopisce a pura funzionalità. Questo è l'inferno vissuto in vita.

Ho avuto per la testa un pensiero molto vero in questi giorni.

La vita adulta costringe ciascuno di noi a lunghe ore di immobilità.

Non c’è nulla di più innaturale che abituare il proprio corpo ad una posizione composta, seduta dinanzi a un monitor, quando quest’ultimo influenza ed è profondamente influenzato da tutto ciò che si annida sotto la sua pelle.

A tal punto, ho poi cominciato a camminare, quella camminata s’è trasformata in corsa e, infine, in due guantoni che ferocemente e armoniosamente si scontravano contro il corpo di un altro.

In quell’istante ho realizzato che la vita non può essere se non è sottoposta in una qualche misura a una serie di movimenti. La nostra mente eredita dai propri antenati non soltanto un paio d’occhi attraenti o un naso greco importante, al contrario: più studi hanno dimostrato ed è sostanzialmente provato che noi abbiamo nel sangue una memoria ancestrale fatta di paure, desideri e moti.

Se tornassimo a ritroso nel tempo, da dove tutti siamo giunti, come nel quadro di Gauguin, ricorderemmo con chiarezza il profumo profondo della terra bagnata, le nostre gambe non avrebbero alcuna esitazione a correre e le nostre mani, sapienti e rigide, saprebbero come prendere la legna e accendere un fuoco.

Le braccia utilizzerebbero tutti i muscoli, attivandoli uno a uno, per cacciare e combattere. Pur di esistere.

Alla stregua della riproduzione, del pensiero, del respiro, il movimento è sostanzialmente quanto di più naturale la nostra specie ci ha mai dato in lascito. Siamo fatti per lunghi chilometri, per spostamenti e paesaggi che cambiano.

La natura e le sue regole sono implacabili, è vero. Altresì rappresentano per l’uomo la sola e vera possibilità d’essere sé stesso e di realizzarsi per mezzo di essa. Nulla è pareggiabile al vero senso di benessere che si prova dopo aver sospinto il proprio corpo sino al massimo del proprio limite, perché in quell’esatto istante lo si è visto esprimere davvero la sua esatta finalità.

Trovo inconcepibile che siamo stati in grado di razionalizzare quest’involucro fisico soggiogandolo con artefizi estetici e catene del tutto contro natura. Quando ci sdegnamo di determinate mode e feroci esposizioni umane, dovremmo chiederci anzitutto in che stato il corpo ha respirato. Riducendo l’idea di attività a quella di fatica, abbiamo depurato persino l’essenza sacra dietro lo sforzo. Volgarizzando l’organismo ad una serie di modelli superficiali e mondani, abbiamo fatto sì che il nichilismo fisico si appropriasse della spiritualità insita nel moto, associando ciò che è esteriore a pura vanità.

Lo stesso spazio fisico attorno a noi ha visto una metamorfosi altrettanto sprezzante: abbiamo ridotto il nostro campo d’azione. Abbiamo accettato case sempre più piccole in mancanza d’altre opportunità, il nostro sguardo s’è limitato alla strada familiare percorsa ogni giorno, ai marciapiedi stretti e limitati delle città.

L’architettura dei luoghi abitanti ha tolto il suo colore, il neoclassicismo grandioso di certi edifici si è visto denudato da un brutalismo terribile e annientatore, lontano dall’armonia cosmica della natura. La superficie in cui il corpo è collocato ha il potere di cambiare completamente la qualità dei propri pensieri. Questo perché il corpo non è altro che espressione dello spirito e viceversa, con l’uno comunichiamo esteriormente, con l’altro nell’analogo incommensurabile mondo dell’interiore. Il corpo è lo spirito. Lo spirito è il corpo.

In più s’è aggiunto un altro tema moderno, che è quello dell’accettazione acritica di sé stessi, il quale è contro lo stesso processo evoluzionistico dell’uomo: ambire al meglio, essere il meglio, spingersi più in là, dov’è consentito, pur peccando di hybris, per respirare a pieni polmoni.

Trovo a questo proposito pertinente l’esempio delle lunghe ed estenuanti scalate verso l’alto di una montagna. Non è dovuto giungere alla cima, ci arriva chi potrà – chi vorrà – ma è inammissibile imporre a sé stessi l’impossibilità di questo evento se tutto il corpo ce lo consente, se l’armonia tra esso e la mente concorda il gesto verso un più ambito limite.

Desidero che questa risulti essere una celebrazione del corpo. E ritengo che non ci sia nulla di più metafisico in quest’ultimo: quando ci muoviamo e respiriamo, stiamo in realtà connettendo più profondità dell’essere, corde ancestrali e desideri intimi.

Sarebbe corretto affermare infine l’importanza dell’equilibrio corpo-spirito, perché la funzione stabilizzante può riscontrarsi nel medesimo rapporto tra il giorno e la notte, la vita e la morte, lo yin e lo yang. Ogni cultura riconosce questa dualità come parte insita dell’esistenza, di conseguenza non possiamo pensare che l’una superi l’altra, atrofizzandola.

Siamo immersi in un mondo che ha l’entropia come sua regola madre: ogni momento ci abbandoniamo a un disordine inspiegabile e irreversibile, ciò avviene con lo stesso principio del panta rei, tutto scorre incessabilmente, e noi non possiamo far altro che assecondarlo, muovendoci, e vivendo nella piena bellezza il ritmo della natura.

La vita metropolitana non è una battaglia alla natura: tutt’altro. Essa rappresenta il fallimento maggiore di quest’ultima, perché laddove la sovranità non appartiene all’equilibrio tra corpo e spirito, il valore dell’esistenza si assopisce a pura funzionalità.

Abbandonarsi ai suoi dogmi, non è neppure una sconfitta. Non sarebbe possibile vedere un fiume tentare di invertire la propria corrente. Non sarebbe sé stesso. Il benessere superiore arriva nella misura in cui attraverso i sensi l’uomo torni a riconoscere sé stesso.

Adeguando il corpo a spazi non propri, abbiamo fatto sì che perdesse il senso dell’autentico e, inevitabilmente, lo spirito ne ha pagato egualmente le conseguenze.