La legge del più forte regge il diritto internazionale, ancora e comunque

Le guerre contemporanee hanno rivelato la fragilità del diritto internazionale. In Ucraina, i confini non li definiscono i trattati ma i carri armati; in Medio Oriente, le risoluzioni dell’ONU si dissolvono tra le macerie di Gaza.

Senza violenza non esisterebbero gli Stati.
Immaginiamo gli uomini di Versailles, ben vestiti, educatissimi e colti, con parrucche argentate che coprono la calvizie e ne risaltano i tratti nobiliari.
Se prendessimo uno di questi gentiluomini e lo spogliassimo di tutto per poi abbandonarlo nella giungla per qualche giorno, o morirebbe subito oppure, in qualche misura, assumerebbe le fattezze di un selvaggio.
Parto da questa metafora per parlare dello Stato: noi uomini e donne del Ventunesimo secolo siamo nati con certezze ormai consolidate, e quando tutto è particolarmente nitido si fatica a cogliere la vera essenza delle cose, nel loro paradosso.
Gli Stati moderni, soprattutto dopo l’avvento delle liberaldemocrazie, si sono rivestiti di una serie di strati istituzionali e culturali paragonabili alle parrucche e agli abiti sontuosi degli uomini di Versailles. Meravigliosi, sì, ma non essenziali.
Ma come diventa selvaggio un Re di Versailles? E come, dal nulla, prende forma lo Stato?
Anzitutto dalla natura, perché ci piaccia o meno, nonostante il raziocinio che predomina nella nostra specie, restiamo sudditi delle sue leggi: il sole, la fame, la riproduzione e la morte.
In natura la sopravvivenza passa attraverso la legge del più forte, che genera gerarchie e la necessità di un branco.
Da questo momento, per l’uomo diventa indispensabile acquisire il monopolio della forza.
Richiamo semplicemente la base fondativa espressa da Weber nella definizione di Stato: «un’impresa istituzionale di carattere politico nella quale – e nella misura in cui – l’apparato amministrativo avanza con successo una pretesa di monopolio della coercizione della forza legittima in vista dell’attuazione degli ordinamenti».
E fin qui ci siamo.
Più un Paese è vasto, più ha bisogno di apparati complessi. Maggiore è la ricchezza dell’uomo di Versailles, più forte è la sua esigenza di ostentazione.
Ma la ricchezza esasperata genera vizi. Le strutture accessorie producono burocrazie immense e lentissime, e una forma di potere vischiosa e spesso incontrollabile.
Per questo, personalmente, ritengo che le liberaldemocrazie possano sopravvivere realmente solo nei piccoli Stati e, per la stessa ragione, l’idea di Stati Uniti d’Europa mi fa rabbrividire, ma questo è un altro discorso.
Quando un ordinamento si appesantisce di troppi orpelli, se non riesce più a garantire efficienza e perde di vista la propria ragion d’essere — il monopolio della forza — rischia il collasso.
Basta osservare le repubbliche fantocce di certi Paesi africani o alcuni esempi della storia recente. La stessa Italia, durante gli anni di Piombo, ne offre una rappresentazione plastica.
E poi c’è tutto il tema del diritto internazionale: i casi di Israele e della Russia svelano l’ipocrisia delle parrucche e dimostrano che, soprattutto a livello geopolitico, a contare davvero — a definire davvero — è ancora la legge del più forte, quella ab originem.
Le guerre contemporanee hanno smascherato l’illusione del diritto internazionale come baluardo di civiltà. L’invasione russa dell’Ucraina ha mostrato che la forza decide ancora i confini, mentre i principi giuridici restano appesi alle dichiarazioni dei vertici diplomatici. A contare, oggi come ieri, non è la legittimità, ma la capacità di resistere, di colpire, di imporre la propria volontà. Lo stesso accade in Medio Oriente: Israele rivendica la sicurezza nazionale, l’ONU convoca riunioni, ma la realtà si misura nei missili e nelle vittime civili, non nei comunicati. La morale si piega alla geopolitica, il diritto diventa linguaggio decorativo, e la violenza – lungi dall’essere un’anomalia – si rivela ancora l’architrave del potere. È la forza, non la legge, a determinare chi ha diritto di esistere sulla mappa.
Il monito andrebbe tenuto bene a mente, perché altrimenti si rischia di costruire la propria casa su fondamenta inesistenti.
La nascita dello Stato non risiede negli ideali, quelli vengono dopo, quando la complessità intellettuale lo consente.
Prima, sempre prima di tutto, c’è la forza.