Primavera 1445 dall’Egira (2024 d.C.): una settimana di viaggio in Iraq, Paese misterioso e seducente, abitato da un popolo fiero. Fra siti archeologici splendidi, edifici bombardati, continui posti di blocco, degrado, sporcizia e sprazi di modernità
Alle origini della civiltà: la culla dove nacquero l’agricoltura, le città, la scrittura, i primi semi del diritto
Prima della partenza, leggo su una guida turistica che in Iraq potrei sperimentare l’ebbrezza di un atterraggio “a cavatappo”, atto a evitare eventuali missili. E mi preoccupo un po’… Invece, per fortuna, non devo affrontare niente di tutto ciò.
Un trasferimento comunque faticoso: scalo interminabile a Istanbul e il volo delle quattro del mattino diretto in Iraq che porta un notevole ritardo. A Bassora (al-Basra), lungaggini burocratiche per il rilascio del visto a pagamento (80 dollari circa). Da un ufficetto squallido, funzionari indolenti ti chiamano con il tuo nome di battesimo. Pochissimi i turisti, catapultati di colpo in un’atmosfera dal sapore coloniale, lontana anni luce dal controllo elettronico dei passaporti. Ventole pigre cigolano sopra le nostre teste.
Depositiamo il bagaglio al Grand Hotel Millennium Al Seef Basra. Una sistemazione più che decorosa. Ma non estranea al contagio da ritmi lenti. Le stanze difatti non sono pronte.
Ci dirigiamo allora alla prima tappa, un ex palazzo di Saddam Hussein, in stile fastoso-kitsch, screpolato, delabré, sede del museo archeologico inaugurato nel 2016. Nelle sale deserte, un maestoso silenzio. Mi tuffo nelle acque di un tempo perduto, sino alla profondità di quattro migliaia d’anni prima dell’era cristiana. Mirabili collezioni sumere, assire, babilonesi: tavolette di argilla in scrittura cuneiforme, ove sono vergati contratti commerciali, atti di matrimonio, poesie, lettere d’amore, maledizioni, preghiere. E poi vasellame, vetri policromi, monete, statuette votive, barchette-giocattolo, lucerne, in una spirale di meraviglia che, passando attraverso una preziosa teoria di creazioni ellenistiche e partiche, ci conduce infine all’arte islamica del VII-VIII. Didascalie vaghissime e poco leggibili. Vetrine e bacheche lerce. Bagni allagati.
Bassora si trova sullo Shatt al-Arab, a una cinquantina di chilometri dal golfo Persico. Durante il Medio Evo era il più importante porto del Medio Oriente, snodo di traffici con l’Estremo Oriente, l’India e le coste dell’Africa orientale. Per i visitatori dell’epoca, uno scrigno di splendori. Insieme a Baghdad e Kufa, Bassora fu anche fulcro di attività letteraria. Sebbene Ibn Battuta, il grande viaggiatore marocchino che la visitò nel 1327, nei suoi resoconti rilevi che, alla preghiera del venerdì santo, “il predicatore parlava scorrettamente, facendo molti e grossolani errori di grammatica”.
Ai giorni nostri la metropoli si presenta come un conglomerato di orrori: degrado, discariche a cielo aperto, baccano, aria inquinata, traffico infernale, totale assenza di logica urbanistica, macerie e calcinacci di edifici bombardati, grovigli di cavi elettrici che penzolano da palazzoni fatiscenti, muri sgarrupati, improvvise voragini, cumuli di copertoni abbandonati. E, ovunque, vetri sporchissimi.
Sopravvive un piccolo quartiere del XVII secolo di case dai tipici balconi shanasheel a sbalzo, di origine persiana, realizzati in legno a trafori: patrimonio Unesco, nonostante il restauro grossolano.
Al calar del buio, un giro in barca sullo Shatt al-Arab, per ammirare l’Italian bridge, che un pacchiano sistema di illuminazione multicolor a intermittenza ha trasformato in una sorta di luna park. Al rientro in albergo, ci é consentito scendere dal pullmino solo dopo che un cane poliziotto vi ha girato attorno, per eseguire un controllo di sicurezza con il solo supporto del suo fiuto.
Nei ristoranti, porzioni super abbondanti e apparenti sprechi di cibo. In realtà le pietanze non consumate dai clienti vengono di norma distribuite ai poveri.
Anbar è la qualità di riso più pregiata, coltivata nella regione compresa tra Nejaf e Al-Mashkab. Quanto alle carni, la scelta è limitatissima: pollo, agnello, montone (di solito, una suola di scarpa). Si servono zuppe di funghi, lenticchie, asparagi bianchi. E poi insalate miste, humus, tzatziki, tabulé. Fra gli antipasti, il mio preferito è la bathinjaneya, una specie di caponata: melanzane fritte unite a carote, cetrioli e peperoni trifolati, in salsa dolce al pomodoro. Pite calde, insipide, più o meno crocanti, smisurate, troneggiano in mezzo alla tavola, e i commensali sono soliti farcirle a mo’ di piadina. Ottimi biscotti con mandorle o pistacchi. E il baklava. La prima colazione iraquena tipica è a base di pasta sfoglia (qahi) spalmata di gheymar, delizioso derivato del latte molto simile al mascarpone, da insaporire con miele oppure con dibis, melassa di datteri. Notevole il tea. Il caffè, che io non bevo, mi dicono sia mediocre, se non pessimo.
Tovaglioli, di carta. Posate, in genere, di plastica. Coltello e forchetta: questi sconosciuti. Per ben che vada, il cameriere ti consegna un cucchiaio. La posate a servire di norma non sono contemplate. Raro che ti portino i bicchieri. La popolazione locale è solita bere a canna, mangiare con le mani, sbranare il cibo a morsi. A fine pasto talvolta qualcuno, incurante del galateo occidentale, ricorre allo stuzzicadenti.
La cucina iraquena difetta di gusto per la novità e la sperimentazione: dipenderà dall’attitudine psicologica alla scarsa varietà e fantasia, amaro frutto di un monoteismo integralista? A tal proposito, naturalmente, niente vino né birra. Purtuttavia, fra i giovani, l’alcolismo è assai diffuso. Come d’altronde anche la piaga della droga.
L’acqua minerale gassata, quasi introvabile, è costosissima. Una micro bottiglietta di San Pellegrino, dal contenuto di poco più di un bicchiere, era venduta a otto dollari.
Un euro corrisponde a circa 1400 dinari iracheni. Non esistono monete, solo banconote.
Preferibile portare con sé i dollari. Però la moneta europea è in genere gradita. Un facchino, mentre gli davo la mancia, mi ha chiesto di corrispondergliela, se possibile, in euro.
La benzina costa meno di mezzo euro al litro.
In Iraq ci sono poche raffinerie ma abbondano i giacimenti di petrolio, che costituiscono un decimo delle riserve mondiali, a pari merito con l’Arabia Saudita.
L’intero territorio è ricco di gas naturali.
Problematico l’approvvigionamento di energia. Con l’Iran che, per le ragioni più disparate, a sorpresa, talvolta ne blocca l’erogazione. Al ristorante, in albergo, nelle abitazioni private, la sera, la notte, di frequente salta la corrente per qualche minuto, dopodiché entrano in funzione i gruppi elettrogeni.
Ci spostiamo verso nord-ovest, dopo quasi tre ore di torpedone raggiungiamo Al-Chibayish, oasi naturalistica popolata dai Ma’dan, arabi delle paludi, discendenti dai sumeri. In questa zona si ritiene sorgessero i giardini dell’Eden, dove la dea Inanna (o Ishtar) era solita ritirarsi in solitudine. Nel 1991, quando il corso del Tigri e dell’Eufrate fu deviato e le paludi prosciugate, molte di queste genti emigrarono. Qui infatti ora non restano che poche migliaia di abitanti. Da quando si è ripristinato il normale corso dei fiumi, l’ambiente ha recuperato un po’ del suo equilibrio originario. Sebbene la biodiversità ne abbia comunque risentito.
Abili barcaioli ci conducono fra lagune e canneti, a bordo dei loro mashoof, piroghe che un tempo, durante la stagione di bassa marea, venivano aggiogate ai bufali, e impiegate dai contadini per scavare nella palude nuovi varchi navigabili.
Nelle vicinanze, svetta l’argentea cupola del monumento ai martiri, giustiziati nel 1991, al termine della prima guerra del Golfo. Il complesso versa in pessimo stato di conservazione.
Nel solcare i placidi canali limacciosi, mi torna in mente una gita con mio padre, pochi anni prima che morisse, nella laguna veneta alle spalle di Caorle, alla scoperta dei “casoni”. In uno di essi, appese alle pareti, foto autografate di Ernest Hemingway, che aveva amato e visitato quei luoghi. Le mie lacrime di commozione evaporano all’istante, in questa calura di fine aprile che supera i quaranta gradi.
Entriamo quindi in un mudhif, abitazione tipica che funge da centro di ritrovo della vita sociale, politica, giudiziaria e religiosa della comunità. Seduti a terra su una stuoia che sembra non aver visto l’ombra di un lavaggio da almeno un decennio, gustiamo una deliziosa carpa, cotta alla brace. Sulla scorta di recenti ritrovamenti, alcuni archeologi hanno concluso che i sumeri si cibavano del medesimo pesce e lo cucinavano nello stesso identico modo in cui lo si prepara oggi. Il prodigio di tradizioni che sopravvivono agli stessi popoli che le hanno introdotte e, superato l’oceano dei millenni, approdano alla riva del futuro. Sul finire del nostro pranzo, sopraggiunge un manipolo di soldati. Hanno fame: offriamo loro i nostri avanzi. Li accolgono con garbo, fierezza e gratitudine.
Dopo tre ore di pullman in direzione nord-ovest, arriviamo a Ur, adagiata in una landa riarsa. Nell’antichità, terra fertile, e fiorente porto fluviale lungo l’Eufrate, dove approdavano mercantili provenienti dall’India e dal Golfo Persico. Fondata quattro mila anni prima di Cristo, nel 2000 a.C. contava 60 mila abitanti.
In sumero, il termine “Ur” significa “città dalle fondazioni imponenti”. Mi chiedo se da tale vocabolo derivi la parola latina “Urbs”.
La ziqqurat è imponente, in parte ricostruita, risale al III millennio prima di Cristo. Il tempio fu edificato in onore di Nanna, una divinità lunare. Ma in questo momento i suoi mattoni sono accarezzati dal Sole che declina all’orizzonte.
Il sito consta anche di due aree adibite a necropoli, una in posizione più elevata, destinata alla famiglia reale e l’altra, nella piana sottostante, riservata al popolo. I reali erano inumati insieme alla servitù, che però veniva sepolta viva. I tesori appartenuti a queste genti sono custoditi al Pergamon di Berlino e nel museo di Baghdad, purtroppo chiuso per restauri.
Poco lontano, nella cosiddetta Casa di Abramo, costruita nel secondo millennio a.C., già presenti cardini per le porte, pozzi e canaline a convogliare e distribuire acqua.
Il tour cui mi sono aggregata prevede spostamenti in auto di parecchie ore al giorno. La rete viaria è disastrata: dossi, buche, avvallamenti, cunette, lavori in corso, tratti non asfaltati: un’agonia di sobbalzi e scossoni. Di conseguenza, nonostante l’estrema stanchezza per le alzatacce antelucane, durante il tragitto mi è impossibile appisolarmi. E, alla lunga, la deprivazione di sonno si traduce in tortura. Però il paesaggio è talmente piatto che almeno non ci sono tornanti. In compenso la nostra corsa è intralciata da numerosi check-point, che si susseguono a poca distanza l’uno dall’altro. Spesso i soldati, appartenenti a milizie diverse, salgono a bordo del nostro automezzo, mitra in spalla, per controllare i passaporti.
Le toilette, ogni volta un trauma: spesso alla turca, puzzolenti, lo sciacquone rotto, mancano carta igienica, sapone e, talvolta, persino l’acqua corrente, deiezioni biologiche fossili, e nugoli di mosche impazienti di pungerti. Le donne che le frequentano, a giudicare dalle loro espressioni serafiche, impassibili, sembrano non farci caso.
All’Hotel Sumerion di Nassiryyah: impianto di condizionamento antidiluviano, difficilmente regolabile, rumorosissimo; materasso sfondato; comodino con due dita di polvere; lavandino che quando azioni il rubinetto cola acqua sui piedi del malcapitato fruitore; doccia tiranna, gelida o bollente; mobilio orribile, deprimente. Passo la notte in bianco.
La mattina si procede alla volta di Uruk (da cui sembra derivare il nome della nazione irachena), prima grande concentrazione urbana della storia, edificata nella seconda metà del IV millennio a.C.. Un tempo era difesa da una doppia cinta muraria, lunga nove chilometri.
Solo una modesta porzione dell’estesissimo sito archeologico è stata riportata alla luce.
Caldo torrido, un vero tormento: un po’ come se qualcuno ci puntasse un fon acceso sul volto, quasi da svenire. Difficile immaginare fino a che punto qui il clima possa diventare intollerabile d’estate.
Siamo gli unici turisti. Un militare ci scorta, sorveglia che non si trafughino cocci smaltati, lacerti di iscrizioni, frammenti di giare. Ma non si limita a questo, fornisce informazioni interessanti, indossa volentieri i panni del Cicerone. Nel volumetto intitolato Viaggio in Iraq, con testi di Cristina Bava e foto di Carla Milone, pubblicato da Il Tucano e Travel Academy, leggo che i cocci di ceramica rinvenuti qui datano addirittura dal VII al I millennio prima della nostra era. Le schegge policrome di manufatti, disseminate un po’ ovunque in enorme quantità, ci rammentano che sebbene la macina del tempo tutto stritoli, qualcosa sempre rimane: conchiglie di bellezza che la risacca della morte restituisce agli umani.
La ziqqurrat è circondata da rovine di palazzi nobiliari. Qua e là affiorano pavimentazioni a mattonelle, setti murari, stele istoriate, mosaici a cono… Lastre realizzate a partire da una mistura di calce e polvere di mattoni crudi conservano antiche commoventi impronte di mani operose. La nostra guida italiana, Martina Leonardi, archeologa, ci fornisce appassionanti spiegazioni, il suo entusiasmo è contagioso.
Il cielo, a conferma della sua etimologia, da queste parti si presenta perlopiù opaco. E in concomitanza con furiose tempeste di vento, una densa nebbia di sabbia grigio-giallastra si solleva dal deserto, avvolge tutto, penetra negli occhi, soffoca il respiro.
A Najaf, dall’ultimo piano di un’autorimessa, osserviamo lo Wadi Al-Salām, la valle della pace, il più ampio cimitero sciita al mondo, fondato nel VI secolo, si estende per sei chilometri quadri.
Cumuli di pattume fra le tombe. E un redditizio traffico di salme che sfrutta l’aspirazione a conquistare, per i cari estinti, una “pole position” vicino al mausoleo del profeta Ali (primo Imam per gli shiiti e quarto califfo per i sunniti).
Imponenti cupole, a coronare le cappelle di agiate famiglie, svettano su una distesa di sepolcri più modesti, qua e là contraddistinti da gigantografie del defunto, spesso immortalato, da vivo, in divisa militare.
Visita al palazzo dell’Imam’Ali e alla grande moschea di Kufa, tra le più antiche al mondo (VII secolo), rappresenta uno dei maggiori centri di interpretazione coranica.
Noto alcuni contenitori ricolmi di piccole pietre incise, di forma circolare, che servono per appoggiarvi la fronte durante la preghiera, onde evitare di posarla direttamente sul pavimento.
Il sarcofago che contiene il corpo del santo è protetto da una gabbia d’argento, dove i fedeli si accalcano e le offerte si accumulano.
Frotte di donne islamiche
molte venute di lontano
vecchie giovani bambine
intabarrate nei loro burqa, chador, niqab,
si inginocchiano
pregano
piagnucolano
si disperano
gridano
cantano
si dimenano
cadono in deliquio
si prostrano ventre a terra
affrontano ore di coda
si spintonano e accapigliano
per arrivare prime al sacro recinto
smaniose di sollecitare un intervento divino.
Docili, in silenzio, alcune eseguono gli ordini dell’imam,
simili a marionette telecomandate.
Qualcuna verga con un gessetto i propri desideri su un enorme telo nero.
Un’invasata mi redarguisce con tono sprezzante
perché una ciocca dei miei biondi capelli
fa capolino dal mio velo.
Nel ventre della moschea,
serpeggia una sottile fanatica isteria
che segna ogni loro singolo gesto.
Erinni o baccanti scatenate
figlie di una spiritualità malata
in preda a un delirio ctonio.
Eclissi totale della ragione
indotta artificialmente
e da oltre quattordici secoli alimentata con cura.
Un’acefala marea nera ondeggia qua e là:
sbriciolata la personalità
nel buco nero dell’omologazione,
anche questo monoteismo contribuisce a preparare il terreno
per l’avvento della definitiva tirannide globale
annunciata da Orwell?
Nel libro Essere ebreo (Bompiani, 1994), un’intervista del giornalista Alain Elkann al rabbino capo Elio Toaf, ho letto ieri un passaggio che mi ha lasciata di stucco e che mi torna in mente ora. Lo cito qui testualmente. “Che compito ha il popolo eletto?”, chiede Elkann. E Toaf risponde: “Il compito, la missione del popolo ebraico viene riassunto in questa frase della Tōrāh: “Voi sarete per me un reame di sacerdoti, una gente consacrata”, sacerdoti dell’umanità e consacrati alla diffusione del monoteismo nel mondo. Io credo che il popolo ebraico abbia in un certo senso adempiuto a questo suo obbligo perché il monoteismo oggi, nel mondo, ha fatto passi da gigante, con l’ebraismo, con il cristianesimo, con l’Islam eccetera. Ma chi ha diffuso questo insegnamento se non il popolo ebraico?”. Puntualizza il giornalista: “Ma l’unica religione del mondo non è proprio quella ebraica?” E il rabbino replica: “L’importante è il monoteismo, la forma con cui si pratica il culto del monoteismo può essere quella che si vuole.”.
Proseguendo da Al-Najaf verso nord, in direzione Karbala, incontriamo Ukhaidir, (775 d.C.), peculiare incrocio tra la “fortezza Bastiani” e un palazzo principesco, un originale caso di sincretismo che combina elementi bizantini e islamici, teorie di archi a sesto acuto che scandiscono corridoi interminabili, rappresentazione dell’infinito in chiave architettonica.
Perlustriamo le rovine di Al- Aquiser. Antichissima chiesa siro-caldea a tre navate che, in particolari occasioni, gli assiri utilizzano ancora. Una San Galgano in miniatura, fra dune di terra rossa e cespugli verdissimi. Poco discosto, un piccolo cimitero abbandonato. Una lezione di armonia e bellezza che ci viene dal quarto secolo d.C. e, al cui cospetto, l’anima nostra resta rapita. Luoghi che incantano, sprigionano serenità cosmica. Una scorta armata ci apre i cancelli di questo lembo di Paradiso sospeso sull’eternità.
Babilonia (II millennio a.C.) Alcune parti, ricostruite negli anni Ottanta e Novanta del Novecento, risultano un po’ fasulle.
Il nucleo più antico, sebbene l’abbia visto dietro il velo di una pioggia battente, a tratti torrenziale, conserva intatto lo smalto della gloria e tracce evidenti del genio architettonico ed estetico di chi l’ha progettato.
Il palazzo presenta mura fortificate e un’infilata di ampie corti, in origine adibite a differenti funzioni. In posizione un po’ defilata, abitazioni lunghe e strette formano una sorta di gioco a incastro. Se osservate a distanza, dall’alto, ricordano la struttura di un labirinto.
La statua del leone di Babilonia, casualmente rinvenuta da alcuni contadini nel 1776, sprigiona nobiltà e potenza, lancia un monito imperituro: il nemico lotta contro la belva, e si divincola, ma invano. Alla fine dovrà arrendersi, soccombere. Opera d’arte che ci parla di un’etica sana, improntata su coraggio, selezione naturale e supremazia di una forza non soltanto fisica, giacché ha saputo tradursi in una scultura capace di emozionare ancora, a distanza di millenni.
Nel museo locale è conservata una stupenda parete policroma, con figure zoomorfe in bassorilievo. In origine si ergeva a ornare la via processionale.
Poco prima di lasciare il sito, ammiriamo due pareti alte e sottili, impreziosite da bassorilievi. Nei decori sono riprodotte due divinità: Adad, dio della pioggia e della tempesta, in sembianze di toro, provvisto di unicorno; e Marduk, lo Zeus del pantheon babilonese, una chimera con testa di drago, squame di pesce, coda di scorpione, zampe anteriori di leone e posteriori di aquila, a significare la sua proteiforme ubiquità.
Nelle vicinanze del sito archeologico, su una collina, sorge un altro dei tanti palazzi di Saddam Hussein. Andiamo a visitarlo. Spettacolo deprimente: l’edificio è stato devastato, saccheggiato, i muri imbrattati, spogliato di tutti gli arredi. In alcuni angoli, montagne di detriti, cumuli di sporcizia. Per realizzare stucchi, parquet, boiserie, affreschi e pavimenti in marmo ci si affidò a maestranze italiane.
Incontriamo il vecchio guardiano e, con l’aiuto dell’interprete, scambiamo quattro chiacchiere con lui. Ci racconta che questa reggia fu edificata su terreni agricoli che Saddam Hussein espropriò ai contadini, ai quali versò tuttavia un generoso risarcimento. Trattamento munifico di cui beneficiò egli stesso. Legato al dittatore da un sentimento di fedeltà e riconoscenza, si propose allora quale custode dell’augusta dimora. Sinché non arrivarono i barbari, ovvero gli americani, a depredarla e distruggerla. Ma quando provò a fermarli, a dissuaderli dal mostrare una simile tracotanza verso i vinti, per tutta risposta i soldati lo massacrarono di botte, tanto da spezzargli le osse di braccia e gambe.
A cinque ore di auto a nord di Baghdad, raggiungiamo il meraviglioso sito UNESCO di Hatra ( al-Hadr), letteralmente il recinto, di epoca ellenistica, sebbene custodisca anche un altare dedicato a Mitra. Vi sono state inoltre rinvenute statue di Ermes e Poseidone. Come al solito, qui in Iraq, abbiamo il privilegio di esplorare un sito quasi deserto. Incontriamo soltanto un Italiano, con Il Milione sottobraccio. Ci confida che ha deciso di ripercorrere l’itinerario di Marco Polo.
Dentro questa città sacra si ha l’impressione di muoversi in una terra onirica.
Mentre il cielo, striato di nuvole, si incunea fra gli archi, su un bassorilievo una cammella allatta il suo cucciolo.
Le statue decapitate dall’Isis mi rammentano la delirante teoria della “cancel culture”.
A partire dal 2003, molte opere d’arte presenti in questo luogo hanno subito attacchi vandalici, sino ai danni inferti nell’estate del 2014 per mano delle bande armate di militanti del califfato di Daesh.
Ad avviare i primi lavori di restauro fu Saddam Hussein che, in memoria di questa impresa, fece marchiare alcuni mattoni con il suo stemma: terrore di cadere nell’oblio?
Anche gli operai che nell’antichità costruirono questo complesso sacro firmavano i mattoni di loro produzione. Non perché assetati di gloria, ma per assicurarsi un giusto compenso in base al lavoro svolto.
Nel gennaio 2021 è ripresa una nuova campagna di lavori di restauro, utile a tutelare anche un patrimonio di oltre settecento iscrizioni nel dialetto locale hatreno, incise su statue, su architetture in pietra o su fragili intonaci.
I templi, il mercato, un locale adibito alla produzione di vino, il teatro e il cimitero fuori le mura, e questo silenzio spirituale, a lungo abiteranno i nostri cuori, nel ricordo.
Samarra, il suo nome significa “si rallegra chi l’ha vista”. È una città abbaside, fondata nel IX secolo d.C. e si trova 120 chilometri a nord di Baghdad.
A calamitare la nostra attenzione, il minareto elicoidale che tocca i cinquanta metri di altezza, ispirato alle ziqqurat assiro-babilonesi. La costruzione si erge splendida, imponente, sinuosa, nell’abbraccio del crepuscolo sprigiona energia, indossa per noi morbide vesti di un giallo rosato.
Quattro i check-point da oltrepassare per accedere a questa città sunnita, che è anche un importante centro di pellegrinaggio sciita.
Nei dintorni, all’ora del tramonto, breve sosta al palazzo abbaside di Jawsaq Al-Khaqani, residenza del califfo Mu’tasim, costruita nel XII secolo. Un complesso in pietra, dalla forma ellittica, adagiato in una conca. Possibile osservarlo solo dall’alto di un piccolo promontorio. I soldati, che ci hanno scortati sin lì, ci autorizzano a entrare. Ma di fatto l’ingresso ci è precluso da un cancello, chiuso con un enorme lucchetto. Nessuna chiave per aprirlo. Interviene allora il nostro autista, giovane intraprendente analfabeta, munito di una spranga di ferro: un colpo secco, ben assestato, e l’ostacolo è superato. Ne valeva la pena. Il sito è magnifico. Gli siamo tutti grati per la sua determinazione. I militari hanno assistito impassibili all’effrazione, senza proferire verbo.
A Baghdad, fondata nell’VIII secolo dopo Cristo dal califfo abbaside Al-Mansur, quasi 9 milioni di abitanti, visitiamo il Palazzo abbaside del 1300, la madrassa Al-Mustansirya, la più antica Università del mondo. E il suk. Divertente curiosare fra le botteghe di antiquariato. Nella via dei librai, su quasi tutte le bancarelle campeggia una copia del Mein Kampf di Hitler. L’altro titolo gettonatissimo è 1984 di Orwell. Qui ebrei e americani sono parecchio malvisti. Così il Furher è diventato un best seller. E certa letteratura di matrice massonica, che svela all’umanità il futuro distopico che la attende, incontra evidentemente il favore del pubblico.
In una sera tiepida, ristorante sulle rive del fiume, ceniamo con il direttore del dipartimento di italianistica dell’Università di Baghdad. Un iraqueno dall’eloquio forbito, che ha studiato in Italia, e parla un perfetto italiano. Ci illustra una serie di iniziative improntate a interessanti scambi culturali tra i nostri due Paesi.
L’ultimo pomeriggio, il mio amico Attilio e io valichiamo i confini della iperblindata zona verde, dove sorgono alcune sedi diplomatiche. Grazie a una persona di sua conoscenza, gli è stato possibile ottenere per noi due un appuntamento presso l’ambasciata italiana, che si trova vicinissima a quella statunitense, nonché all’enorme base militare americana, presidiata lungo tutto il perimetro esterno da decine di carri armati e fornita di un sofisticato scudo antimissili che, proprio poche settimane prima che arrivassimo qui, era stato però violato da un attacco iraniano. Tedeschi, francesi, spagnoli e russi, prudenzialmente, hanno preferito piazzare le loro ambasciate in un’area più distante dalla “fortezza a stelle e strisce”.
Piacevole il colloquio con l’ambasciatore. Si è stupito della nostra decisione di ignorare la nota della Farnesina, che sconsigliava di visitare questo territorio martoriato. Cionondimeno, si è complimentato con noi per aver osato tanto. Ci ha poi regalato una splendido volume edito da Treccani, e nato su suo impulso, dal titolo Tesori dell’Iraq. Ha inoltre mostrato curiosità per i nostri racconti di viaggio poiché qui, ai diplomatici, sono consentiti spostamenti assai limitati. Nonostante infatti risieda in Iraq da anni, al momento non ha potuto spingersi oltre Baghdad.
La popolazione è cordiale e generosa. Gli Iraqueni sembrano lieti di vedere finalmente qualche turista in circolazione, un segnale che, dopo decenni di tragedie, li induce forse a sperare in un minor isolamento dal mondo. Spesso non ti consentono di pagare ciò che acquisti. E insistono anzi per omaggiartelo. Ho provato a comprare tre limoni ma il fruttivendolo mi ha inseguito per restituirmi i denari che gli avevo lasciato sul banchetto.
Sembra che qui gli italiani siano piuttosto amati.
Molto spesso la popolazione locale esprime il desiderio di farsi scattare una foto in nostra compagnia.
Comunque, lungo tutto l’itinerario, non abbiamo mai avuto l’impressione di trovarci in una situazione di pericolo.
Sovente osserviamo ciminiere gigantesche vomitare densi fumi neri nell’aria.
Lungo la strada, venditori ambulanti spaccano enormi cubi di ghiaccio in pezzi meno voluminosi. Ogni mattina il nostro autista si ferma presso uno di questi punti di rifornimento e compra un piccolo iceberg per raffreddare acqua e bibite.
Come già avevo notato in Vietnam mesi fa, anche qui parecchie imbarcazioni portano due grandi occhi apotropaici dipinti sulla prua, a scacciare spiriti maligni. Un’usanza già diffusa fra i Fenici e i Greci.
Ho domandato alla nostra guida iraquena se, per il suo popolo, incrociare un gatto nero fosse segno di malaugurio. Mi ha risposto che per loro questo animale rappresenta l’incarnazione di un demone. Mi rammento l’Annunciazione di Lorenzo Lotto, esposta al Museo civico di Recanati, dove un gatto scuro scappa all’arrivo dell’angelo. Forse l’inconscio collettivo è il medesimo ovunque, in tutti i tempi? O, più semplicemente, le superstizioni veleggiano sulle onde della parola?
In Iraq, quando si concede una padella in prestito a un vicino, e anche quando la si restituisca al legittimo proprietario, vi si metterà sempre dentro un piccolo sasso, ad augurare che quella pignatta non resti mai vuota.
E quando si compra una casa nuova è di buon auspicio sacrificare un agnello.
Anche la divinazione astrologica, la superstizione per eccellenza, sembra del resto essere sbocciata proprio da queste terre.
L’Iraq sorge sul territorio dell’antica Mesopotamia.
Dal IV millennio al VI secolo a.C. ospitó le civiltà dei Sumeri, degli Accadi, degli Assiri e dei Babilonesi.
Fu poi dominato dai Persiani (VI-IV secolo a.C.), da Alessandro Magno (IV secolo a.C.), dai Seleucidi (IV-III secolo a.C.) e dai Parti (III-II secolo a.C.), che ne contesero il controllo ai Romani.
Dal III secolo d.C. fu sottomesso alla dinastia persiana dei Sasanidi.
Nel VII secolo fu conquistato dagli Arabi e islamizzato.
Nell’VIII secolo, quando Baghdad fu capitale del califfato abbaside, il Paese attraversò un periodo di grande splendore.
Nel XIII secolo arrivò l’invasione dei Mongoli.
Nel 1534 cadde in mano ai Turchi di Solimano il Magnifico. E dal XVI al XX secolo, fece parte dell’Impero Ottomano.
Durante la prima Guerra mondiale (1914-1918), fu occupato dai Britannici. E nel 1920 fu posto sotto l’amministrazione della Gran Bretagna.
Nel 1921 divenne una monarchia, sotto il re Feisal I.
Nel 1932 approdò all’indipendenza.
Fu governato da Saddam Hussein dal 1979 al 2004.
Oggi la Repubblica democratica, federale, rappresentativa e multietnica dell’Iraq si estende su una superficie di 439.370 mila chilometri quadri. Vi abitano oltre 30 milioni di persone. La componente araba si attesta sul 65%; quella curda, a nord, incide nella misura del 23%. Numerosi i nomadi che vivono nella steppa o nel deserto, in prevalenza nella parte sud occidentale del Paese.
Oltre il 90% della popolazione è musulmana. La religione è in prevalenza sciita (62,5%). E sunnita per il restante 34,5%.
La mortalità infantile è altissima.
Il 17 settembre 2024 la Corte suprema federale dell’Iraq ha approvato alcune modifiche alla legislazione preesistente (legge 188/1959 sullo status personale) per cui, in materia di matrimonio, divorzio e affidamento di minori, la competenza passa dai tribunali civili a quelli religiosi. In base a tale normativa, le donne divorziate rischiano di perdere il diritto a rimanere nella casa coniugale e a ricevere sostegno economico dall’ex marito. E, per le bambine, il matrimonio sarebbe permesso addirittura a partire dai nove anni. Già oggi d’altronde il 22% dei matrimoni non registrati riguarda ragazze di età inferiore ai 14 anni.
L’ipocrisia iraquena sciita ha scovato un escamotage per legittimare la prostituzione. Si tratta dell’istituto del matrimonio temporaneo (“mut’a”, ovvero “un atto osceno sotto copertura religiosa”, “una dissolutezza legalizzata”), consuetudine praticata anche in Iran.
In base al rapporto di Amnesty International 2024, nel 2023 in Iraq sono state eseguite 16 esecuzioni per impiccagione e sancite 138 condanne capitali. Gli standard internazionali sul giusto processo spesso non vengono rispettati.
Musicalmente, l’Iraq è famoso per due strumenti: il primo si chiama ‘ūd, una sorta di liuto; l’altro è il rabāb, simile a un violino. Nella civiltà mesopotamica la musica accompagnava i culti e le celebrazioni. Soprattutto nella zona dell’Eufrate, notevoli le influenze di matrice orientale, ancora oggi vivissime.
Se i registratori fossero stati inventati prima, avremmo magari avuto il privilegio di seguire le improvvisazioni notturne di Mozart al pianoforte, le colonne sonore delle tragedie greche, la musica pitagorica delle sfere celesti e persino le antiche melodie assire, sumere, accadiche e babilonesi… Così invece potremo solo sperare di ascoltarle fra le pareti radiose del sogno. O di captarne qualche nota nel turbine dell’eternità. Sopra i cieli della Mesopotamia.
Di Lidia Sella