Viaggio solitario in Sri Lanka, a caccia di tesori, tra arte, archeologia e natura

La mistica bellezza dei templi buddisti. Un popolo gentile. L’oceano della giungla. Una civiltà antichissima. La carezza del silenzio

28 dicembre 2024. Con il taxista che mi conduce a Malpensa, parliamo di quanto sia peggiorata la sicurezza pubblica a Milano. Mi rivela che sul taxi sono montate due telecamere, una che guarda all’esterno, l’altra rivolta all’interno. E che gli basta premere un pulsante per attivare l’intervento della polizia.

Aeroporto di Malpensa. Mi soffermo inorridita davanti a una pubblicità dell’Hotel Manin di Milano. Trasuda volgarità. Il messaggio, intriso di politicamente corretto, servito in salsa woke, è di una demagogia ributtante. In questo albergo, quando ero ragazza, si tenevano conferenze, dibattiti politici, presentazioni di libri. Per certi versi ne serbavo un ricordo legato al sapere. Oggi sono sempre più rari i posti che mantengono nel tempo le proprie caratteristiche e nei quali possiamo riconoscerci a distanza di decenni. Preferivo quando tutto era meno precario.

Prima tratta, sei ore di volo.

Comincio a leggere un saggio di Enrica Perucchietti, La censura nelle democrazie del XXI secolo: miniera di utili informazioni ma alcune frasi ripetute due volte e una messe di refusi: l’acribia non dev’essere il suo forte.

Mi metto a scrivere un testo per un convegno cui mi hanno invitata a Palermo, lo intitolo La democrazia liberale: una perfetta chimera.

Rivedo 2001: Odissea nello spazio, capolavoro realizzato da Kubrick nell’ormai lontano 1968: riconoscimento facciale, video-chiamate, una trama intessuta di angoscia, l’insidia dell’intelligenza artificiale, il tunnel del tempo, un vortice di immagini e colori sospesi sull’abisso tra materia e antimateria, una cascata di interrogativi esistenziali, nel cuore dell’ignoto, verso l’infinito, sino al nucleo della vita. Attraverso il labirinto della coscienza.

Scalo ad Abu Dabhi. Scovo una Spa dove concedermi una doccia, al modico prezzo di 37 dollari.

Durante il volo non ho chiuso occhio nemmeno un istante. Sono stravolta. A un certo punto mi accorgo di aver perso il tablet. Convinta di averlo scordato a bordo dell’aereo, mi rivolgo all’ufficio transfer, e scattano le ricerche. Ahimè, infruttuose. Mesta, mi avvio ai controlli successivi e solo allora mi viene in mente che, all’arrivo ad Abu Dabhi, con ogni probabilità l’avevo inavvertitamente abbandonato proprio nella vaschetta di plastica da sottoporre all’occhio vigile dello scanner. Prego quindi un addetto di aiutarmi. Qualche telefonata e, dopo una manciata di minuti, mi viene incontro un poliziotto. Ha in mano il mio computer. In un aeroporto immenso come questo… si è trattato di un autentico miracolo!

Altre quattro ore abbondanti di volo.

Un ragazzo seduto accanto a me mi riferisce che, al fine di invogliare i clienti ad acquistare il biglietto, sulle lunghe tratte verso Oriente la compagnia di volo Etihad offre in omaggio una notte d’albergo ad Abu Dhabi, per spezzare con uno stop la trasvolata.

La mattina del 29 dicembre 2024 atterro a Colombo. Rispetto all’Italia, quattro ore e mezzo di fuso.

Controllo passaporti piuttosto rapido; celere la consegna dei bagagli. Il facchino, per i suoi servigi, mi chiede in rupie l’equivalente di venti euro. Considerato che in Sri Lanka uno stipendio medio si aggira sui 250/300 dollari al mese, gli do solo cinque euro. Obtorto collo, si accontenta.

Caldo soffocante, umidissimo.

Ad attendermi, l’autista che mi scorterà nel mio viaggio solitario. Ha lo sguardo vivace. È gentile, educato, sorridente. Mi è subito simpatico. Il suo nome è lungo. Concordiamo che lo chiamerò semplicemente “Su”. Gli chiedo di accompagnarmi a un banco di cambio che le recensioni sul web indicano come il più conveniente della città.

All’hotel ITC Ratnadipa sono imbranatissimi, quarantacinque minuti per assegnarmi la stanza.

Mi faccio una doccia, poi ci dirigiamo al tempio di Gangaramaya: resto colpita da una sorta di collina in miniatura, popolata da una moltitudine di statue del Buddha. L’opera sembra rievocare la quantità di figure umane che nei millenni si sono avvicendate sulla Terra, tanto diverse tra loro ma in fondo così simili. O forse il monumento andrebbe interpretato quale un

tentativo di cristallizzare in eterno quella schiera di personaggi interiori che sovente si affollano nel nostro sé.

Una toccata e fuga all’Indipendence Memorial Hall. Inaugurato nel 1953, cinque anni dopo che il Paese si affrancò dal giogo del Regno Unito. Rammenta un tempio greco. Purtroppo illuminato in maniera pacchiana.

Ceno in hotel. La maggior parte delle pietanze sono piccanti, a base di frutta o di funghi. Siccome non amo niente di tutto ciò, mi preparano un brodo di pollo e un pesce in salsa francese. Ci abbino un calice di Riesling. Ma qui i vini vengono perlopiu importati dal Cile o dall’Australia.

30 dicembre 2024. Prima di lasciare l’albergo, ordino una Ceasar salad. E la accompagno con una Leon, fantastica birra locale.

Caldo torrido. Visita al Museo Nazionale. Bianco edificio coloniale immerso nel verde. All’interno solo qualche ventola, ma niente aria condizionata. Pregevoli sculture antiche e collezioni di armi, monete, vetri, ceramiche, gioielli. E un’impressionante sfilata di maschere demoniche. Il mostruoso trova espressione nell’arte di qualunque civiltà, inevitabile riflesso del male che alberga nell’animo umano.

***

Lasciamo la città di Colombo, diretti verso nord-est. Dovremo attraversare foreste. “Su” sostiene che sarebbe meglio arrivarci entro le 18, altrimenti potremmo incrociare gli elefanti che, quando prendono di mira un’auto e decidono di attaccarla, finiscono per ribaltarla. Confesso che invece sarei curiosa di affrontare questa esperienza.

La guida è a destra, all’inglese.

Spesso le strade sono strette, a una sola corsia, e gli autisti piuttosto spericolati.

“Su”, con un guizzo felino, ha evitato un bus che aveva invaso la nostra carreggiata e puntava dritto su di noi, a tutta velocità. Non si sa se incurante o soltanto ignaro del pericolo che costituiva per sé e per gli altri.

Ci siamo lasciati alle spalle il traffico caotico di Colombo (qui dicono “Calambo”).

Qualche sporadico piovasco si alterna a sprazzi di sole. Dopodiché inizia una specie di diluvio universale. Con relativi allagamenti.

Cinque ore di auto da Colombo e verso sera arriviamo al Uga Ulagalla, un resort in mezzo alla giungla.

31 dicembre. Ci avviamo verso Anuradhapura, complesso di antichi templi buddisti.

Sul piazzale antistante il sito, si vendono fiori. Alcuni pellegrini se li portano invece da casa, le braccia colme di profumo e colore. Li offriranno a Buddha. In cambio di desideri da esaudire. Mi uniformo all’usanza locale.

Si deve procedere a piedi scalzi e, dato il tempo pessimo, piovosissimo, ciò significa camminare per lunghi tratti su pietre, sassolini, nel fango, dentro le pozzanghere. Confessioni, rosari, offerte, penitenze, inginocchiatoi, cilici, pellegrinaggi, ripide scale per accedere ai templi, Ramadan: qualunque culto è attraversato da una vena di sadismo e sempre i fedeli si dimostrano un po’ masochisti.

“Su” lascia le scarpe all’ingresso ma, quando torniamo per recuperarle, scopriamo che le hanno rubate. Gliene regalo un paio nuovo. Mi sembra che abbia gradito.

Gruppi di uomini e donne sciamano in processione, alcune vecchie pregano in coro, si respira un’aria di profondo misticismo, lontani dal baccano infernale dell’Occidente.

Mi incanto di fronte al Ruwanwelisaya Dagoba, uno stupa colossale, edificato nel II secolo a.C., misterioso utero di mattoni, gigantesca mammella, grembo cosmico che tutto contiene.

Cena di capodanno. Spettacolo di danze folcloristiche e ballerini mangiafuoco. Poi musica da discoteca, bellissima. Alla mia veneranda età, concludo che sarebbe ridicolo, addirittura patetico, se mi mettessi a ballare da sola. Gli altri ospiti evidentemente sono troppo timidi. Nessuno si lancia nel folle turbine delle note. Ma poi penso: “Che cosa me ne importa? Qua non mi conosce nessuno!”. Così mi fiondo in pista. Ho un umore spumeggiante. Tra una portata e l’altra – raffinate originali creazioni gastronomiche realizzate dallo chef Sugath Wijewardhana – mi scateno in giravolte da derviscio. Il mio entusiasmo contagia gli astanti e, dopo un po’, tutti mi seguono. Si respira gioia di vivere. Brindo a Orione, sdraiato sui declivi del cielo. I fuochi d’artificio tracciano, sulla lavagna del firmamento, figure simili a galassie in espansione.

Tappa successiva, Sigiriya, una delle antiche capitali dello Sri Lanka, sito archeologico che risale al V secolo a.C., dichiarato patrimonio Unesco.

Nel XII e XIII secolo la fortezza di Sigiriya fu trasformata in un monastero buddista. In seguito cadde in stato di abbandono.

Durante gli scavi, condotti verso fine Ottocento dall’archeologo Harry Charles Purvis Bell, furono rinvenute monete romane e indo- romane. Oltre a reperti di epoca sassanide.

Dinanzi ai nostri occhi, una versione orientale, in chiave paradisiaca, dei giardini di Versailles. Straordinaria opera di ingegneria idraulica, con fontane ancora funzionanti. Ampie armoniose piscine, intarsi vegetali, fossati con ninfee galleggianti fungono da anticamera ideale all’imponente Rocca del leone, che custodisce mirabili affreschi realizzati con pigmenti naturali. Fotografarli è vietato. In origine dovevano essere circa cinquecento. Ora ne restano solo 19.

Il re Kasyapa (477- 495 d.C), che ebbe l’idea di sfruttare questa superba formazione granitica per erigervi la propria reggia, sembra amasse molto le donne. Oltre alla moglie, aveva cinquecento concubine. E forse non a caso le pitture che ornano le pareti del palazzo riproducono le apsara, figure femminili assimilabili a ninfe: seminude, forme prosperose, posture procaci, cortigiane esotiche, indiane, cinesi, africane…

La mia guida parla italiano e mi spiega che il muro antistante, che ne rifletteva lo splendore, fu costruito con calce, albume, miele e cera d’api, così da renderne la superficie simile a uno specchio.

Mi rimarrà il rimpianto di non aver scalato il massiccio sino in cima, a causa di condizioni meteo proibitive. Per accedere ai resti del palazzo, abbiamo salito un migliaio di gradini, sotto una pioggia battente, sferzati da un vento implacabile. Sulla via del rientro, l’acqua scendeva a fiumi, insieme a noi, lungo le scalinate. Risalgo in auto inzuppata come un pulcino.

Cena del 1° gennaio. In un albergo vicino al mio, raggiungo l’amico di un’amica milanese, e il suo gruppo. Uomo di vasta cultura, ha organizzato un impeccabile tour dello Sri Lanka, cui ha dedicato mesi di studio.

Giovedi 2 gennaio mi reco a Dambulla, patrimonio Unesco dal 1991, un complesso di templi con un’ottantina di grotte, di cui solo cinque visitabili, ognuna diversa dall’altra. Per accedere al sito, scale, scale e ancora scale.

Entro nel primo tempio. Vengo accolta dalla carezza del buio e investita da un turbine di energia che si sprigiona dai soffitti affrescati, dalle statue variopinte, dalla roccia impregnata di spiritualità.

Nel camminare a piedi nudi sul selciato, mi sento un po’ Neanderthal, per un attimo gioco a calarmi nei panni di una mia ignota antenata, vissuta

qualche centinaio di migliaia d’anni fa, e provo a immaginare quali pensieri le attraversassero la mente.

Nonostante fiumane di turisti, regna un’atmosfera raccolta.

Però, alla lunga, questa interminabile teoria di Buddha risulta un po’ monotona. Il Buddha dormiente, immobile, in contemplazione, lo sguardo fisso, l’aria catatonica, l’espressione imperturbabile… Per la verità, sono più affascinata dall’approfondimento psicologico che ha guidato l’arte del Rinascimento e dalla straordinaria varietà dell’architettura sacra italiana. Per quanto in effetti mi sforzi di scandagliaree e comprendere le culture orientali, in definitiva le vivo sempre con un senso di distacco ed estraneità.

Visito il Golden Temple. All’esterno, alla destra dell’ingresso principale, in posizione elevata e un po’ nascosta, una lunga fila di statue, monaci buddisti vestiti con il classico thero arancione, formano una surreale processione artistica nel folto della boscaglia.

Nel villaggio di Matale, trascorro un’ora alquanto istruttiva fra le aiuole del Mercato delle spezie, dove si coltivano piante officinali a uso cosmetico e farmaceutico, materia prima per portentose ricette srilankesi, antiche di migliaia d’anni. Acquisto un olio di cannella, indicato per combattere l’insonnia, nella speranza possa agevolare il mio riposo.

Tempio di Aluvihare, qui nel I secolo a.C. gli insegnamenti del Buddha vennero messi per iscritto.

Su un’area non troppo estesa, sorgono diversi edifici ricavati all’interno di piccole grotte e incastonati tra spettacolari massicci rocciosi.

Le pareti interne sono istoriate con affreschi che raccontano scene della vita di Buddha.

Incrocio soltanto una famigliola con due bambine. Il padre chiede a una di loro di consegnarmi il proprio mazzetto di fiori, affinché possa essere io a posarlo sull’altare. Una delicatezza che mi ha commosso. E che renderà per me indimenticabile questo luogo.

Venerdì 3 gennaio, a Kandy, visito lo Sri Dalada Maligawa, nei pressi del lago artificiale: architettura cingalese del XVII secolo, intarsi in legno, decorazioni dorate.

Frotte di fedeli seduti a terra pregano sottovoce davanti agli altari. Una devozione discreta ma palpabile.

Nel museo buddista internazionale, pregevoli reperti del XVIII secolo a.C.

Tappa successiva, i Giardini botanici di Peradeniya, inaugurati nel 1821, occupano un’area di circa 60 ettari, ospitano oltre quattro mila specie vegetali. Un caleidoscopio di armonia e meraviglia, dove natura, gusto e silenzio si sposano in un magico sodalizio. Si susseguono scorci incantevoli: alberi secolari, foreste di bambù, viali di palme, cespugli multicolori, pergolati fioriti…Tutto è pulito, ordinato, ben calibrato.

Eppure la fantasia regna sovrana. Il tempo sembra immobile, lontano il mondo. Mi sforzo di andarmene via ma, a ogni angolo, una nuova sorpresa per gli occhi e la mente mi trattiene. Quando infine mi decido a interrompere il mio giro di esplorazione, so che proverò eterna nostalgia per questo lembo di Paradiso.

Ambuluwawa Tower. La raggiungo con una corsa in took took. Solitaria si erge su una collina coperta da una fitta vegetazione. Domina la vallata sottostante. Ma il panorama non è un granché. All’equatore, per la forte umidità, è spesso velato. Come oggi. Quasi rimpiango quei cieli di zaffiro che ogni tanto abbracciano Milano.

Questo stupa coniuga elementi architettonici tipici delle quattro principali religioni presenti in Sri Lanka: buddismo (70,2%), induismo (12,6%), Islam (9,4%) e cristianesimo (7,8%, di cui il 6,8% cattolici e l’1% protestanti). Un augurio sincretistico in muratura, viatico per la tolleranza e il reciproco rispetto fra le diverse confessioni. In una logica da Pax Romana.

Tempio di Embekka Dewalaya, dedicato alla divinità buddista e induista di Kataragama. Fu edificato nel XIV secolo.

Famoso soprattutto per le stupende colonne in legno intarsiato che raffigurano ballerini, animali, motivi geometrici.

Ero l’unica turista.

Il luogo trasuda Storia. E sprigiona serenità.

Kandy Market Street. Nella bottega di un antiquario acquisto una miniatura del Buddha, bassorilievo in rame rinvenuto fra le rovine di Anuradhapura.

Sabato 4 gennaio. Il tempio di Gadaladeniya, costruito nel XIV secolo. Sulle pareti esterne della struttura è in corso un intervento di restauro.

Tempietti-bonsai dedicati a Buddha. Pochissimi turisti.

I monaci hanno sguardi e sorrisi che diffondono letizia.

Il cassiere è un artista. Gli compro un quadretto delizioso. In serata, dopo oltre quattro ore di auto, arrivo a Galle.

Domenica 5 gennaio. Breve tour della cittadina: architetture coloniali, vivaci negozietti, artigianato originale, taverne e trattorie arredate con eleganza e semplicità.

Visita alla Chiesa riformata olandese del 1755, con sgargianti vetrate policrome.

Il faro è del 1778.

Sulla spiaggia troneggia un cumulo di copertoni. Il museo è chiuso per restauri.

L’erba ha conquistato i contrafforti della fortezza. Qua e là, statue di soldati e di schiavi. E qualche cannone.

Al Ceylon Spa, ottime creme a base di essenze naturali, a prezzi abbordabilissimi.

Pranzo al Tuk Tuk Restaurant, terrazza vista mare. Di antipasto: “eggplant moju and godamba roti (piadina locale) with curry dips”, poi un’insalata di riso fritto con pesce e verdure al vapore e infine, per dessert, lo yogurt tradizionale di Sri Lanka, chiamato curd, squisito, servito con foglie di mentuccia e treacle, sciroppo dal sapore simile al miele, distillato dai fiori di palma.

Durante il viaggio, “Su” mi chiama “Superwoman”. “Perché questo appellativo?”, gli ho chiesto. Mi ha risposto: “Lei non è mai stanca. Risolve ogni problema, E non ha paura. Solo sulla sua insonnia”, ha aggiunto, “non ha potere”.

Ritorno a Colombo, dove si trova l’unico aeroporto del Paese. Il mio volo di rientro parte da qui.

Mi assegnano un altro autista: tonto, maldestro, ritardatario. E pure balbuziente.

Soggiorno all’Hotel Shangri-la

Al cancello d’ingresso, un cane-poliziotto annusa la nostra auto, per accertarsi che non trasporti esplosivo.

Osservo il panorama dalla mia camera, al quindicesimo piano. Baracche e casupole si alternano a palazzine coloniali fatiscenti. Svettano mostruosi grattacieli e la scenografica antenna delle telecomunicazioni. In lontananza, un ponte avveniristico sul fiume Kelani.

Ottima cena a buffet: sushi di granchio, gamberi favolosi, un’insalatina di germogli di soia e una verdura che di solito gusto solo in Grecia, l’okra.

Assaggio dei fagioli rossi, tenerissimi, che arrivano dalla Cina. Il pesce che offrono più spesso è il tonno, scuro e gustoso come quello mediterraneo.

Mi reco al tempio di Kelaniya Raja Maha Vihara, a circa 45 minuti di auto dal centro. Non vedo la rastrelliera per depositare le scarpe, quindi non me le levo. Dopo una decina di minuti che mi aggiro attorno ai templi, odo una voce femminile che con insistenza ripete: “Madame, Madame”.

Ce l’ha con me. Mi ha seguita. E ora mi bracca. Scura in volto – in tutti i sensi – con tono minaccioso mi redarguisce. Devo insomma togliermi subito le scarpe. E aggiunge: “Siamo in un luogo sacro, Buddha non può tollerare un simile affronto!”. Non mi resta che ubbidire. Come al solito piove, e così i miei piedini finiscono nel fango.

Incrocio un uomo alto, snello, sguardo fiero, lineamenti regolari. Se non fosse per la pelle scura, potrebbe dirsi un perfetto ariano. Gli domando se sappia dove si trovino gli affreschi che rendono celebre questo complesso. Gentilissimo, me li mostra. Sono straordinari. Resto sbalordita. Varco porte che conducono nella contrada del sogno. Ogni sala diversa dall’altra. Colori, figure, prospettive, luci e ombre, proporzioni: note che concorrono a comporre una sinfonia magnifica. Proprio ieri ho iniziato Ascetica o i salvatori di Dio, di Nikos Kasantzakis. È un flusso di pensiero ruggente, sorta di decalogo visionario per spingere l’uomo a trascendere sé stesso.

Vi scovo una frase adatta a commentare questo luogo: “Come un’isola, lentamente, con uno sforzo tremendo, s’innalza sull’oceano dell’inesistente l’opera dell’uomo”.

Scatto una foto a un monaco che sfoglia un quotidiano. La sua curiosità per le vicende del mondo un po’ mi stupisce. Sono in effetti portata a immaginare che questi ‘santoni’ vivano sempre un po’ avulsi dalla realtà… Noto infine un gigantesco salone rettangolare, aperto sui lati, delimitato da colonne. All’interno, decine di donne, alcune decrepite, sedute a terra o sdraiate, mangiano, bevono, dormono, parlano, mi vengono incontro, sono curiose di sapere da dove vengo, vorrebbero una foto con me. Qualcuna di loro, le mani giunte, dialoga con una statua del Buddha collocata in un tempietto.

Un salto al mercato del pesce, aperto 24 ore al giorno, anche la domenica. Sono circa le quattro del pomeriggio. A quest’ora hanno venduto tutta la merce. Un’efficiente squadra di aironi cenerini ripulisce il pavimento dagli avanzi.

Da ultimo, una visita lampo al Museo Olandese: armi, gioielli, mobili e stampe di epoca coloniale, una collezione di pipe e tabacchiere.

Curiosità

Le autovetture vengono importate più che altro dal Giappone. Invece took took, moto, motorini, bus e camion arrivano dall’India o dalla Cina.

In autostrada ho visto alcuni addetti spazzare la corsia di emergenza con una scopa di saggina.

Il Telepass, le metropolitane e i parcheggi sotterranei non esistono. I treni sono affollati e privi di aria condizionata.

Le autostrade sono rare e in genere poco trafficate.

La benzina costa un euro al litro. E un euro corrisponde a circa 300 rupie.

Incrociamo un’auto che procede in un altro senso di marcia e accende i fari a intermittenza. “Perché lo fa, vuole segnalarci che c’è una volante della polizia appostata dietro l’angolo?”, chiedo al mio autista. “Si”, mi risponde. Ecco… “tutto il mondo è paese”.

I poliziotti, anziché elevare una contravvenzione, preferiscono estorcere un po’ di contanti all’automobilista indisciplinato. La percentuale di onestà fra le forze dell’ordine sembra si attesti attorno al 3%.

Quanto a corruzione, probabilmente la classe politica non è da meno. Altrimenti non avrebbe cavalcato la bufala della pandemia. I cittadini invece sono stati costretti anche qui a fare da cavie per l’inoculazione con il siero genico sperimentale a mRNA anti-Covid che, com’è ormai assodato, ha prodotto gravi effetti collaterali e milioni di decessi in tutto il mondo. D’altronde Big Pharma, senza la complicità dei governi, difficilmente sarebbe riuscita a portare a termine la sua impresa criminale planetaria.

Ma, perlomeno, in Sri Lanka, esistono ancora le banche nazionali: People’s Bank, Bank of Ceylon e Central Bank.

La popolazione locale è pulita, mite, allegra, garbata, rispettosa, disponibile, servizievole. E, in ambito turistico, quasi tutti parlano inglese. Sebbene in molti mal sopportino l’imperialismo americano.

Puoi lasciare tranquillamente borse e sacche in auto. Nessuno le ruberebbe. Quando ho spiegato a “Su” che in Italia è il contrario, ne è rimasto stupito.

Entriamo in un supermercato per comprare una ventina di bottigliette d’acqua frizzante. Un commesso del negozio ce le carica nel baule. Da queste parti è di prassi la cortesia.

Mi assicurano che nelle città e nei villaggi viene effettuata una regolare raccolta rifiuti. In giro in effetti non c’è tanta sporcizia. Comunque una situazione incomparabilmente migliore rispetto all’India.

Nessun problema intestinale causato da acqua infetta et similia.

Tranne che per alcune toilette impresentabili, vige un buon livello di igiene.

In nessun bagno d’albergo è montato il bidet. Lo scopino per il water non è contemplato.

In tutti gli armadi d’albergo è appeso un ombrello.

Purtroppo anche in Sri Lanka, la notte, è impossibile ottenere il buio pesto in camera. Mille spie accese: TV, WiFi, aria condizionata, rilevatori anti- fumo, pannelli di controllo dell’impianto elettrico… Niente scuri, persiane o tapparelle. Solo tende, perdipiù chiare, dalle quali filtra la luce. Una detestabile moda globale, che attenta al sonno profondo.

Nonostante le temperature elevate e l’umidità costante, in Sri Lanka preparano i letti come se fossero a Saint Moritz, con il piumone. Retaggio della dominazione inglese?

Tranne che a Galle, rarissimi i ristoranti. Di solito i turisti mangiano in albergo. Dove di norma il conto è piuttosto salato.

Il mio autista mi spiega che le mance più sostanziose le elargiscono gli americani. Quanto agli europei, primi in classifica gli inglesi, seguono francesi e spagnoli. Di recente, i più taccagni risultano essere gli italiani che, in passato, si dimostravano viceversa generosissimi. I meno signorili in assoluto sono gli indiani, i cinesi e i giapponesi, che non ne lasciano proprio.

Assisto al processo di produzione del tè. Accurato e complicatissimo. In Sri Lanka se ne coltivano differenti qualità: nero, verde, argento e oro.

Molti lo sorbiscono amaro, ma intanto sbocconcellano barrette di caramello solidificato, ottenuto dalla cottura del treacle.

L’addetta che mi illustra i vari macchinari afferma che il loro forno non è né elettrico né a gas. E con orgoglio mi mostra cataste di legna da ardere. Un diverso modo, insomma, di intendere l’ecologia.

In Sri Lanka le ragazze buddiste o induiste lavorano di solito

come contadine, operaie, commesse, cameriere, segretarie, si sposano intorno ai 20-22 anni, generalmente partoriscono due figli, possono decidere con chi maritarsi, anche se la propria famiglia esprime parere contrario. Se però commettono adulterio, il marito subito chiede il divorzio.

Le islamiche viceversa convolano a nozze intorno ai 18 anni, fanno almeno cinque o sei figli a testa, non hanno facoltà di scegliersi lo sposo e di rado lavorano fuori casa.

Sebbene la popolazione sia in prevalenza scura, o scurissima, su tutti i cartelloni pubblicitari compaiono esclusivamente volti dalla pelle chiara. Non esistono attori o modelli, fra i neri.

Le donne di colore fanno carte false per tentare di sbiancarsi la pelle, con creme, pillole e intrugli vari. Talvolta rovinandosi la salute.

In Sri Lanka mi è capitato di vedere elefanti che brucavano l’erba sul ciglio della strada, pavoni passeggiare sui tetti, mucche al guinzaglio, un simposio di corvi attorno a una noce di cocco, ranocchi che saltellavano davanti a una porta chiusa, un topo scorrazzare nella mia stanza d’albergo, scimmie che aggredivano turisti, scoiattoli in chiesa.

A dispetto del clima umidissimo, di rado svolazzano insetti.

Se lavate la biancheria, occorrono giorni prima che si asciughi.

La Repubblica democratica socialista dello Sri Lanka – territorio sino al 1972 denominato Ceylon – è separata dalla costa sud orientale dell’India attraverso lo Stretto di Pali.

Per la collocazione geografica e la sua forma a goccia, l’isola è detta Lacrima dell’India. Si estende su una superficie di oltre 65 mila chilometri quadrati. Conta più di 21 milioni di abitanti.

Il cingalese, di ascendenza indoiranica, fu importato dall’India settentrionale nel V secolo a.C. e in seguito ibridato da influenze dravidiche indigene. È parlato dal 75% della popolazione. Ha un suono dolce e musicale, somiglia a un canto.

Le lettere sono 56 e presentano forma curvilinea, forse perché anticamente venivano vergate su foglie di palma essiccate.

L’alfabeto è composto da un insieme principale di grafemi, il śuddha sinhala, che raccoglie i fonemi nativi, e da un corpus minore, denominato miśra sinhala, che permette di scrivere in sanscrito e in lingua pali.

Il singalese letterario, ancora in uso, si fissò nel XIII secolo, con la

Sidatsangarava, la grammatica classica.

Specifici simboli rappresentavano i numerali, caduti in disuso all’inizio del XIX secolo, in concomitanza con l’introduzione dei numeri arabi.

Nel Paese, soprattutto a nord, si parla anche tamil.

Questa civiltà ha saputo resistere alla barbarie che proviene da Occidente, è riuscita a preservare quasi ovunque – a eccezione del quartiere Peta a Colombo – la preziosa dimensione del silenzio. Non come in Europa, dove una musica tribale e assordante, diffusa ovunque, ci spacca i timpani. E l’anima.

La favola persiana I tre principi di Serendip, pubblicata per la prima volta a Venezia nel 1557, racconta che i tre giovani protagonisti facevano, in maniera del tutto casuale, continue piacevoli scoperte. Serendip è uno degli antichi nomi dello Sri Lanka. La serendipità ha in effetti accompagnato tutto il mio viaggio. Come quasi sempre accade quando si cammina lungo i sentieri della vita, e il nastro del futuro, e del pensiero, si dipana nella medesima direzione in cui muoviamo i nostri passi.

Di Lidia Sella