La lacuna dello sguardo. Intervista con Nicola Samorì
L’artista al Giornale d’Italia: “Tutto ha a che fare con la pelle, con la carne, con la pittura e la scultura che si fanno corpo”
Sfregi, la prima antologica di Nicola Samorì a Palazzo Fava. L'intervista con l'artista
I corpi stridono, si contorcono sotto il peso della materia che corrode, leviga, sfinisce la tela, quasi come se l’artista volesse spingerla all’estremo del suo significato.
La carne invadente e ossessiva si impone come sintomo di un’anatomia la quale finisce per dissolvere la forma e il soggetto del Leib.
Per l’artista ritrarsi dal corpo è un ritiro dal mondo: “Il confronto con il corpo è inevitabile. Io sono un corpo e uscire dal perimetro e dallo spazio che abito è praticamente impossibile”- spiega Nicola Samorì al Giornale d’Italia - “Il lavoro che faccio non fa altro che dire che sono un uomo che sta rappresentando la figura umana anche nel momento in cui questa non è riconoscibile. Anche quando si parla di un fiore o di una farfalla, c’è sempre qualcosa che ha a che fare con la mano che l’ha dipinta o con l’occhio che l’ha vista. Tutto ha a che fare con la pelle, con la carne, con la pittura e la scultura che si fanno corpo. Le scelte dei materiali e dei suoi utilizzi nascono dal tentativo di ricostruire una sorta di anatomia immaginaria e parallela”.
Ma i corpi di Samorì vanno oltre la pura fattualità; essi aprono uno squarcio verso ciò che lo sguardo occlude. Sotto l'egida di Santa Lucia, la vera sfida che l’artista pare lanciare a chi osserva è quella paradossale di imparare a guardare senza occhi.
Espressione profonda è lo sguardo accecante e allo stesso tempo cieco della sua Lucia, ottenuto attraverso l’innesto di due geodi di onice.
Viene in mente la riflessione di Lukàcs: “Chi guarda Dio muore ha scritto Ibsen. Ma può vivere colui sul quale si è posato il suo sguardo?”
I sentimenti perturbanti nascono dall’iper-visione di un iper-Kòrper che non è mai meramente meccanico, ma luogo dell’intenzionalità e teatro di un laborioso scavo interiore.
L'artista rivela il manchevole, l’incompleto, mentre i vuoti contrastano con i pieni e la perfetta anatomofisiologia con la materia che li logora. Il tempo vi si imprime non come pacata linearità, ma come circolarità tormentosa, eterno ritorno.
Come sottolinea l’artista: “Il concetto stesso di evoluzione contraddice ciò che penso in generale dell’arte, ovvero un luogo non esattamente di trasformazione in chiave positivistica, ma di elementi che ritornano e che hanno a che fare con l’esperienza della nostra vita. Questa mostra è un progetto antologico e si vorrebbe leggerla in chiave evolutiva, ma dimostra che non è accaduto esattamente questo: è uno spazio circolare di trasformazione. Ci sono vicoli ciechi, accelerazioni, sperimentazioni che vengono abbandonate e poi ritrovate”.
In questo continuo nutrimento, in questo “spazio circolare di trasformazione”, l’artista dialoga con le sue opere, con sé stesso, ma anche con il passato. L’allestimento in Palazzo Fava è invero interamente costruito intorno alla narrazione dei fregi realizzati dalla scuola bolognese secentesca dei Carracci.
È una contemplazione quanto mai impetuosa quella che deriva dal contrasto possente messo in scena dalla sensorialità della congiunzione e dal trionfo dello sguardo barocco in rapporto con le laceranti interpretazioni contemporanee di Samorì, capaci di porsi addirittura come superamento del senso della vista: “È senz’altro necessario che si attivino di fronte alle immagini altri sensi. La pittura e la scultura non sono solo luogo degli occhi che guardano ma anche del desiderio di toccare e di sentire gli odori della pittura stessa. Una grande parte di questa mostra parla della pittura come qualcosa che è costruito non per essere visto, ma toccato” - dice l’artista- “Il mio rapporto con l’arte del passato è un rapporto di dipendenza dalle forme ma anche di indifferenza nei confronti del tempo: non considero mai un’opera come qualcosa di veramente antico. Si tratta di forme che continuano a esistere, e sulle quali mi misuro come corpi concreti e reali e che mi permettono di riscrivere e mettere in luce una serie di gesti che possono sembrare estinti, mentre hanno una profonda vitalità”.
Si ergono dall’ombra le pathosformeln reinterpretate dal linguaggio dell’artista a rappresentare gli assilli del presente, la duplicità e le ferite dell’uomo contemporaneo. Come conclude l’artista romagnolo: “In questo periodo l’arte necessità di un ritorno alla realtà, intesa come possibilità di confrontarsi faccia a faccia con le cose e con le immagini dopo una sorta di bulimia da schermo che lascerà delle tracce profondissime.”
Viene ancora in mente Ibsen e le parole del vecchio di Dovre di Peer Gynt: “Pensavo davvero che il vecchio Adamo fosse stato scacciato una volta per tutte: ed ecco che ad un tratto rispunta fuori. Eh sì caro figlio, bisogna guarirti di questa cocciuta natura umana. Ti graffierò l’occhio sinistro, appena un pochino; […] ricordati che la vista è la sorgente delle lacrime, un ramo che macera e che corrode”.