Goldstein: 'Rete unica, operazione complessa. Europa contraria'

L’economista Andrea Goldstein: "Credo che ci siano elementi che possono suscitare preoccupazione".

L’economista Andrea Goldstein è stato consigliere delegato e capo economista di Nomisma ed ha recentemente curato insieme a Giorgio Bellettini il volume L’economia italiano dopo il Covid-19 (Bononia University Press 2020).
 
1) Professore, lo stato torna a fare impresa e recitare un ruolo attivo nell’economia italiana?
 
In tutto il mondo è in corso un aggiornamento del dibattito sul ruolo dello Stato nell’economia. Il lungo decennio dopo la crisi finanziaria globale ha visto le divergenze aumentare, all’interno dei paesi innanzitutto ma anche tra nazioni, e questo per molti è il risultato di 30 e più anni di liberalismo. Poi c’è l’esperienza della Cina e del suo capitalismo, indubbiamente di Stato, che molti ammirano e considerano un tassello fondamentale del puzzle del miracolo cinese, oltre a strutturare la competizione sui mercati in cui operano le imprese italiane.
 
Non è indispensabile giudicare se questa ricostruzione della realtà economica contemporanea sia fondata, quello che è importante è constatare che influenza l’opinione pubblica e orienta il campo delle scelte dei decisori. Insomma, il pendolo Stato-mercato sta muovendosi da “destra” a “sinistra”, per usare categorie che ci sono famigliari, anche se ormai le forze politiche che sostengono che il pubblico è la salvezza si trovano da entrambi i lati.
 
Stato imprenditore allora? Certamente abbiamo assistito a diverse operazioni ardite, dalla nazionalizzazione e salvataggio (si fa per dire) di Alitalia all’ingresso massiccio di azionisti pubblici in Aspi, passando per la vicenda Ilva. Bisogna anche dire che la crisi che stiamo vivendo ha dimensioni inaudite e che risposte fuori dall’ordinario sono comprensibili. In più, anche se le consorterie varie che hanno sempre circondato il mondo delle cosiddette partecipazioni statali non sono scomparse, così come la lottizzazione delle poltrone è viva e vegeta, c’è meno corruzione che un tempo. E soprattutto esiste un forte vincolo esterno, che si chiama Europa e che, almeno per il momento, impedisce a chi ha il potere a Roma di esercitarlo in maniera troppo arbitraria.
 
2) Il recovery fund aiuterà davvero il paese a rilanciare politiche economiche  e le azioni a sostegno dell’industria per provare a uscire da questa crisi profonda e recuperare competitività in Europa?
 
Next Generation EU è un’opportunità quasi senza precedenti per l’Italia. Lo è innanzitutto per l’effetto espansivo della nuova spesa pubblica che consente, a condizione ovviamente che sia spesa produttiva e non improduttiva come molti governi hanno preferito fare, soprattutto negli anni 2000, per guadagnare consensi elettorali. Ma l’opportunità risiede ancora di più nello sforzo di riflessione e di programmazione che ci viene richiesto per identificare le priorità e massimizzare l’effetto dell’investimento pubblico: sulla dinamica della produttività e pertanto della crescita sostenibile.
 
Proprio per questo, invece che la solita lista della spesa, si tratta di saper scegliere. Il disastro della pandemia, oltre che l’inadeguatezza di molti decisori, in primis nella zona più ricca del Paese, ha messo in luce come siano deboli le infrastrutture: in piccolo quelle che servono alla mobilità delle persone a livello territoriale, in grande quelle digitali che trasportano i dati e connettono gli italiani al mondo. I leader europei hanno approvato il target del 20% per gli investimenti nella digitalizzazione che, come ha puntualizzato la Commissaria Vestager, sono indispensabili per una transizione verde, ma che ovviamente richiede l’acquisizione di competenze digitali “che molti europei non hanno”. Ma i soldi di Bruxelles possono servire anche per riformare la pubblica amministrazione e ridurre gli oneri della burocrazia. Certo, non c’è bisogno di tirare fuori chissà quanti miliardi per ridurre il numero di regole, norme, vincoli, moduli da compilare, per semplificare un sistema di tassazione che ormai sembra servire soltanto per rimpinguare il portafoglio dei commercialisti, o per migliorare il coordinamento all’interno dell’amministrazione pubblica stessa. Ma aiuta, e molto, poter disporre di infrastrutture digitali all’altezza.
 
3) La concorrenza, in questo momento il tema non  è  mai stato così attuale ma sembra che stato e mercato non la pensino allo stesso modo.
 
La politica per la concorrenza ha vissuto in Italia una troppo breve stagione di grazia alla fine degli anni 90, quando l’ancor giovane Autorità era animata dall’entusiasmo intellettuale, e non a caso presieduta da una figura come Giuliano Amato. La caratura appropriata per realizzare gli obiettivi che Tullio Ascarelli e gli Amici del Mondo si erano proposti nel lontano 1955 – e che sembra lontana dalla realtà odierna.
 
Sono anni ormai che la politica riserva alla concorrenza poche attenzioni. Ad onore del vero è forse persino un bene, tanto sono radicati i preconcetti sul mercato, che una politica della concorrenza appropriata deve proteggere e stimolare. Per la vulgata dominante, concorrenza è sinonimo di precarietà e abusi: esemplare un recente tweet di Marta Fana, economista in gran voga nei circoli anti-global, che se la prende con Ryanair che le cancella i voli di Natale con tre mesi di anticipo, anticipando che farli volare mezzi vuoti costerebbe troppo, mentre considera naturale che una linea aerea di Stato li mantenga, anche se sono per pochi e (viene da pensare) molto fortunati passeggeri.
 
Abbiamo necessità di liberalizzare vari settori e non è questa la sede per analizzare quali, come e quando. È sufficiente ricordare che quando si chiede agli imprenditori esteri perché non vengano a investire in Italia, emergono costantemente tre criticità: l’eccessiva tassazione, la lentezza della giustizia e la burocrazia. Dietro ciascuna si intravede la mancanza di concorrenza che permea il Paese.
 
4) Invece cosa pensa del progetto per una rete di telecomunicazioni fisse unica che anima il dibattito da diversi mesi?
 
Il progetto lanciato da TIM e Cdp (che di TIM detiene il 9%) il 31 agosto per fondere FiberCop e Open Fiber e dare vita alla società della rete unica nazionale (AccessCo), di cui TIM vorrebbe detenere almeno il 50,1%, è complesso. In apparenza sembrerebbe  sancire la pace tra due concorrenti che se la sono date di santa ragione fino a poco tempo fa: a febbraio 2020 l’AGCM ha sanzionato TIM per aver implementato un insieme di azioni anti-competitive sul mercato nazionale, realizzate innanzitutto per danneggiare Open Fiber e renderle difficile sviluppare e utilizzare la infrastruttura integralmente in fibra che sta realizzando.
 
Credo invece che ci siano elementi che possono suscitare preoccupazione. La concorrenza tra due o più infrastrutture stimola gli investimenti e premia il consumatore, che ha accesso alle migliori tecnologie. L’Italia è in ritardo – no competition, no (investment) party – ma quando Open Fiber ha iniziato a realizzare un’infrastruttura FTTH (fiber to the building/home), TIM ha reagito creando Flashfiber in joint venture con Fastweb. Si tratta, è importante ricordarlo, di cose diverse: Tim si limita, per così dire, a sostituire le connessioni di rame nella rete primaria (FttCab, soluzione intermedia che limita gli investimenti) o anche secondaria (FttH/FttB) con la fibra e i nuovi apparati, mentre l’infrastruttura di Open Fiber è nuova, integralmente in fibra fino a casa (FttH) e con architetture non vincolate dalla topologia della rete preesistente. Integrarle non sarà agevole. Oltretutto FiberCop conferisce la rete secondaria, mentre Open Fiber, che si è aggiudicata tutti e tre i bandi governativi per sviluppare la rete nelle aree svantaggiate, non è proprietaria dell’infrastruttura, che resta allo Stato, ma ne è solo concessionaria, a differenza delle grandi città dove investe privatamente.
 
Ma, come ha autorevolmente sostenuto Michele Polo della Bocconi, un’unica rete fissa ultrabroadband sembrerebbe una scelta razionale. Si tratta di scavare e posare nuove linee sul territorio, oltre che di predisporre nuovi apparati, insomma di investimenti costosi che forse non vale la pena duplicare. C’è ovviamente un problema di potere di mercato ed eventualmente di abuso del medesimo. Ma anche una serie di rimedi, una su tutte è la concorrenza infrastrutturale non solo sulle reti fisse, ma anche su altre tecnologie wireless e reti mobili – in primis la 5G – oltre alla fissazione delle tariffe di accesso e degli standard tecnici da parte del regolatore. C’è poi il tema della parità di trattamento per tutti gli operatori nei mercati dei servizi, evocato sia a monte (dalle altre società di telefonia) sia a valle (dai fornitori di servizi, in particolare di intrattenimento). Alla fine tutto dipenderà da come si giocherà la partita con Bruxelles. Che la rete sia una componente fondamentale della politica industriale è acquisito e condiviso. Si può fare assegnando un ruolo forte, o addirittura centrale, all’azionista pubblico. Non dimentichiamo che Cdp detiene metà di Open Fiber e l’altra metà è posseduta da Enel, dunque lo stato ha il 100%.

 Oppure si può cercare di accelerare sul fronte della regolazione, utilizzando strumenti rigorosi – viene immediatamente pensare ai contributi di recenti Premi Nobel dell’economia come Tirole, Milgrom e Wilson – che offrono gli incentivi giusti senza sollevare preoccupazioni sul fronte del conflitto d’interessi. “Dipende da come vengono fatte le cose”, ha indicato recentemente la Commissaria Vestager non c’è preclusione, ma fari accesi sui dettagli e soprattutto una moral suasion molto chiara verso infrastrutture neutrali aperte alla concorrenza.